di Iannozzi Giuseppe
C’è una cosa più forte di tutti gli eserciti del mondo, ed è un’idea il cui tempo sia giunto.
Victor Hugo
Le circostanze fanno l’uomo non meno di quanto l’uomo faccia le circostanze.
Karl Marx
I ciechi conducono i ciechi. E’ il sistema democratico.
Henry Miller
“I’m singing in the rain/ Just singing in the rain/ What a glorious feeling/ I’m happy again…”: così cantava il Sandrone, sgraziatamente, sputando nella voce tutta la rabbia di Sid Vicious.
* * *
Due post-it, l’unica eredità che il padre gl’aveva lasciato, campeggiavano in bella vista attaccati ad una parete marcia di vecchi poster: “Quando esci di casa, assicurati d’avere con te tutto lo stretto necessario: al tuo rientro potresti trovare l’appartamento svuotato anche se non hai niente che valga la pena d’esser rubato.” Sandrone aveva sempre obbedito al primo avvertimento: la catena, il coltello, quattro lire in tasca, perché altro non aveva. Il secondo non l’aveva mai ben capito: “Il tempo fugge così anche tutto il suo contenuto: non ho bisogno del passato per sapere chi sono. Ma il passato ha bisogno di me per sapere chi esso è.” Lo ripeteva a sé stesso senza comprenderne il significato come un mantra, come una preghiera, poi usciva di casa quando il mattino era ancora debole e la luce poca: rincasava non prima delle due di notte, sempre. Così la sua vita si trascinava da parecchi anni: niente speranze per il futuro, forse solo quella che sarebbe morto giovane senza lasciare di sé un bel cadavere.* * *
Sandrone era un senzalavoro, neanche un precario: sapeva bene che mai la società gl’avrebbe dato un impiego. C’era troppa gente a spasso e lui era uno dei tanti, neanche un numero da statistica. S’arrangiava come poteva, piccoli lavoretti in nero: non aveva istruzione né arte, quindi faceva quello che gli capitava fra le mani. Spesse volte non aveva proprio un cazzo di nulla per tirare a campare, ed allora tirava giù una gragnola di bestemmie al vuoto dilagante che lo investiva. Era stanco della vita, ma non si sarebbe arreso: non avrebbe permesso alla vita di scrivere l’epitaffio sulla sua magra esistenza. Così s’illudeva. Alla sera rincasava stanco: girava in lungo e in largo la città bussando alle porte di tutti ma mai niente. Quando gli andava bene, qualche stronzo gli dava da lavorare per poche ore, poi lo liquidava mettendogli in mano pochi spicci. Gli bastavano appena per un panino e una birra in bottiglia.
* * *
Si divertiva ad osservare le puttane: se non altro era una consolazione sapere che c’era chi se la passava peggio di lui. Ma s’illudeva, perché almeno quelle scopavano con dei clienti e, bene o male, qualche soldo se lo tenevano nonostante le botte dei magnaccia. E poi scopavano. Quando ci pensava, non poteva fare a meno di sentirsi male: lui manco aveva gli spicci per farsi staccare un pompino alla boia d’un giuda da una delle più scassate.
La puttana era la solita, una delle tante.
“Se ti prendessi fra le gambe, ti farei venire anche l’anima che non hai insieme alla poca sborra che ti macchia i pantaloni.”
“Non c’ho ‘na fava in tasca.”
La puttana gli sorrise: “Quand’è così, perché non vai a farti un giro da un’altra parte?”
“E’ che mi piace guardare.”
“Sei un guardone allora.”
Sandrone sfoderò il suo sorriso migliore: “No. Un segaiolo.”
La puttana prese a ridere: dalla bocca le usciva una risata grassa, cavernosa, tremenda, quasi un urlo tirato fuori dal culo dell’inferno.
“Un segaiolo!”, gli fece eco. “Sono i migliori i segaioli quando lo fanno davvero.”
“Che intendi?”
”Che vengono bene. E’ come fottere un vergine. O un cupio. Tu che sei? cupio o vergine?”
“Fottiti!”
“Ah, puoi scommetterci! Ma non te.”
Di dialoghi così ne imbastiva almeno uno ogni notte, ma con la puttana non ci faceva mai niente. Scivolava in un angolo e si sparava una sega acquosa, perché, a forza di fare la fame, anche l’uccello aveva cominciato a darsi ai capricci: non gli tirava più bene, non rispondeva al suo impetuoso desiderio solo nutrito da mille fantasie. Era duro da ammettere, ma era la triste realtà.
* * *
Il sussidio di disoccupazione – chissà perché! – non gl’arrivava più: c’era stato dagli stronzi, aveva fatto i pugni duri, e quelli gl’avevano puntato contro l’indice e l’avevano messo alla porta senza tanti complimenti. Non c’era stato verso: alla fine l’aveva perso il sussidio e non sapeva perché. Fu inutile tornare più e più volte a protestare: sempre si veniva alle mani, e a prenderle toste era sempre lui, da solo contro tutti.
* * *
“Dovresti prendere della crusca.”
“Che me ne faccio? Mica devo cagare!”
“Ed allora come la vuoi mettere?”
“Niente. Aspetterò che passi la fame o scenda lo stronzo.”
Davide buttò giù un altro sorso di birra, l’ultimo, poi scaraventò lontano la bottiglia che andò a frantumarsi in un angolo. Il Sandrone lo imitò presto.
“Che cazzo facciamo?”
”Che vorresti fare?”
“Risposta del diavolo. Ad una domanda segue sempre un’altra cazzo di domanda.”
“Potremmo sempre dire quant’è bello il tuo italiano, per esempio.”
“Spiritoso.” Guardò nel vuoto del notte. “E’ tardi.”
”Hai da fare domani? Non mi sembra. Allora non preoccuparti e goditela.”
“C’è niente da godere.”
“Già.”
“Tu che intendi fare? Della tua vita, intendo?”
“Boh! Per ora me la godo finché ci sono i soldi.”
”Hai le tasche bucate.”
“Mai quanto le tue.”
“Quattro spicci in salamoia non fanno la differenza.”
“No. Ma per ora sopravvivo. E tu?”
”M’arrangio.”
“E ti basta?”
“No.”
“Hai mai pensato di squagliarti da ‘sta città del cazzo?”
”Un milione di volte.”
“E l’hai mai fatto?”
”Una volta. Forse due. Ma ogni città è uguale.”
”Potresti sempre andare in giro con un barattolo.”
”’Fanculo! A me il barattolo non l’attacca nessuno.”
“E come pensi di cavartela?”
“E’ la notte dell’interrogatorio questa?”
Davide ristette un secondo o due, non sapeva che dire di preciso. “Boh!”, si risolse a sputare alla fine.
“Ah, ecco! Mi sembrava.”
Entrambi rimasero in silenzio scrutando la notte, le code luminose dei fanali, le macchine che sfrecciavano loro accanto rasentando il bordo del marciapiede. I semafori erano ciechi, spenti.
“Andiamo a trovare le puttane?”
Il Sandrone sbuffò annoiato. “E perché? Non ce la smollano mica gratis?”
”Le sfottiamo un po’.”
“’Fanculo!”
”Piace anche a te sfotterle.”
”Non sono in vena.”
“Ed allora che vorresti fare?”
”Mi sa che me ne vado a casa a provare se mi viene lo stronzo.”
“Sì, ti siedi sul cesso e aspetti il miracolo.”
“Magari accade!”
Davide fissò il Sandrone dritto nelle palle degli occhi: “Lo sai che non accadrà.”
Fosse stato un altro gl’avrebbe tirato una leppa, ma Davide era il suo unico amico: era una specie di fratello, il suo cane per ciechi, così si limitò a sorridergli addosso regalandogli la sua migliore smorfia belluina. Poi prese a cantare con voce strozzata: “I’m singing in the rain/ Just singing in the rain/ What a glorious feeling/ I’m happy again…”
Davide rimase ad ascoltarlo qualche attimo.
“Questo gradino s’è fatto troppo duro per le mie chiappe. Ci scolliamo?”
* * *
Quando finalmente a casa, con lo scazzo addosso, la porta la trovò aperta, sfondata. Il Sandrone rimase davanti alla porta abbattuta, ma senza troppa sorpresa. Ecco un’altra rogna che gli dava noia e rabbia: i ladri non aveva trovato niente, sicuramente, ma la porta, quella mica avrebbe potuto sostituirla così dall’oggi al domani! Non aveva il becco d’un quattrino e un appartamento come il suo, in una casa popolare, senza porta valeva niente, era un invito aperto a farsi accoltellare o peggio. Varcò l’uscio calpestando la porta: le pareti giallognole, i poster che sapeva, niente era stato toccato perché non c’era niente che valesse la pena d’esser portato via. Sospirò ormai convinto che avrebbe passato la notte all’addiaccio, quando notò un’ombra sinistra. Strinse la mano intorno alla catena.
“Non ti servirà.”
“Chi cazzo sei?”
E l’ombra, uscendo dall’oscurità: “Nessuno. Sono come te.”
Era un tipo magro ma tutto un fascio di nervi tesi e duri come fil di ferro. Non lo conosceva, ma presumeva fosse uno dei tanti disperati che la città ospitava.
“Non c’è niente qui.”
“Bella novità! Ho visto da solo. E’ un letamaio.”
”Che cazzo vuoi?”
”Hai spicci in tasca?”
”Se ce li avessi non sarei qui. E comunque non te li avrei sganciati.”
“Allora siamo a posto.”
“Metti giù quella catena. Non ho cattive intenzioni.” Ma se la rideva sotto i baffi.
“Ed allora, perché non ho più la mia porta?”
“Cosa diavolo pretendi! In qualche modo dovevo pur entrare. E’ bastato un soffio… E quella puff, a terra.”
“Era la sola che c’era, bastardo.”
”E’ logico che ne avessi una e non due o tre. Datti ‘na calmata.” Prese a cachinnare divertito.
“Tu ordini a me di calmarmi… Cazzo! Sei tu fuori posto, amico. Non io.”
“Siamo fuori posto tutti e due. Così non risolviamo un tubo di niente.”
“Non c’è niente da risolvere. Taglia la corda!”
“Butta la catena. Te l’ho già detto che non ti serve a niente.” E così dicendo trasse di tasca la pistola. “Adesso la butti, sì o no?”
Il Sandrone continuò a reggere la catena in mano, con forza, fino a farsi diventare le nocche bianche. “Vattene!”, gli berciò addosso. E fece per tirare fuori il coltello a serramanico.
“Tu sei una testa di cazzo. Mi dispiace per te.” Un colpo. Poi un altro. Per il Sandrone fu il buio.
* * *
“Il tempo fugge così anche tutto il suo contenuto: non hai bisogno del passato per sapere chi sei. Ma il passato ha bisogno di te per sapere chi esso è.”
“Dove sono?”
“Il passato ha bisogno di te per sapere chi esso è.”
“Io la conosco questa voce.”
“Certo che la conosci.”
“Tu…”
“Sì, è così, figlio mio.”
“Ma tu sei morto.”
“Infatti è così.”
“Allora anch’ io.”
“No. Non ancora. Ma la vedo brutta.”
“Che m’è accaduto?”
“Quello t’ha sparato due colpi: uno al petto, l’altro ha preso in pieno l’arteria femorale. Sei arrivato in ospedale mezzo morto, mezzo dissanguato.”
“M’hanno già ricucito.”
“Hanno fatto quello che potevano.”
“Cioè niente. Non è forse così?”
“Non sei un cliente importante per quelli lì.”
“Maledetto servizio sanitario.”
“Dove m’hanno parcheggiato?”
“In un buco. Lo chiamano Terapia Intensiva. Ma non c’è un cane a farti la veglia. Solo tubicini attaccati alle braccia, luci e apparecchi strani. E un tubo in bocca, grosso davvero: pare un bigolo.”
“Perché?”
“Hai avuto un arresto cardiaco.”
“Fottuto! Sono fottuto.”
“Due minuti e qualche secondo. Il cuore ha ripreso a battere, ma il cervello, quello non s’è svegliato.”
“Sei venuto a prendermi. Non è forse così?”
“Io non prendo nessuno. Se sarà, sarà il buio.”
“Non c’è un cazzo di Paradiso, vero? E neanche l’Inferno?”
“Non c’è un cazzo.”
“L’ho sempre saputo.”
”A questo punto…”
”Sì, immagino di sì. Ma allora, tu?”
”Un residuo. Un corto circuito del tuo cervello.”
”Solo questo?”
“Che t’ aspettavi?”
“No. Niente.”
“Se sei un corto circuito, come fai a sapere tutte queste cose? Come cazzo è possibile?”
“Ti stai immaginando tutto.”
”Ma…”
“Quando va in corto circuito, il cervello fa i cazzi che vuole lui. Si contraddice in mille immagini e possibilità. E ti fa credere che tutte siano… Insomma, è un casino. Non si può spiegare.”
“Okkey. Ma morirò? Dimmelo lo stesso!”
“Io penso di sì.”
“Ma tu sei un corto circuito del mio cervello.”
”Tu hai chiesto, io ho risposto.”
“’Fanculo!”
“Ti sembra un brutto film, di quelli senza né capo né coda. Forse è così. Parli con me ma stai parlando con te stesso. Solo mi proietti nel tuo cervello mettendomi in bocca parole tue.”
“Doppiamente ‘fanculo.”
* * *
“Quello in terapia intensiva, Dottore?”
Il Dottore fece finta di osservare la cartelletta clinica, poi alzò gli occhi sull’infermiera: era giovane ed appetibile, un bocconcino. Sospirò, poi si costrinse ad un’aria seria per far colpo sulla giovane. “Poche speranze.”
“Non ha nessuno?”
“E’ uno sbandato. Ne arrivano tanti da queste parti.”
La boccuccia dell’infermeria stava per dire un ma, quando il Dottore le fece capire con un cenno della mano destra che non era il caso.
“Mi creda. Si è fatto tutto il possibile.”
Ormai era sicuro d’averla conquistata. Ma, improvvisamente, la porta fu investita da due forti colpi che la fecero tremare tutta. Il Dottore sussultò. Aveva chiuso la porta dello studio a chiave, ed andava contro il protocollo. Tossì violentemente avvicinandosi alla porta, mentre gli occhi inquisitori dell’infermiera lo seguivano.
“Qualcosa non va, Dottore?”
“No, niente…”, bofonchiò. “E’ solo che questa porta… è un po’ capricciosa. I cardini andrebbero oliati…”
“Quando sono entrata, non me ne sono accorta.”
‘Sarai pure un bocconcino, ma la testa, quella…’, pensò ma non ebbe tempo di finire il pensiero: la porta venne battuta nuovamente da altri due secchi colpi. Un foglio volò via dalla scrivania e l’infermiera subito prese a rincorrerlo. Approfittando della distrazione della giovane, il medico trasse di tasca la chiave ed aprì. Era salvo. O quasi. Di fronte aveva un tipo puzzolente e male in arnese: ce l’aveva scritto in faccia che cercava rogne e le dava.
“Come posso esserle utile?”
”Sandrone.”
“Chi?”
”Sandrone Tiravanti. E’ stato ricoverato qui. E lei è il suo dottore. Così m’è stato detto.”
“Ah!” Sospirò. Poi guardò il culo della giovane infermiera impegnata a novanta gradi a rassettargli la scrivania. “Immagino vorrà vederlo…”
“Indovina giusto.”
Rassegnato lasciò lo studio ed accompagnò il rompicoglioni da quel pezzo di merda, che aveva strappato dalle braccia della morte. “E’ qui. Non credo se la caverà. E’ conciato male. Ma abbiamo fatto tutto il possibile.”
“Sì, certo, come no!”
“Ma lei chi è? Come si chiama?”
Davide lo guardò storto: “Sono la sua famiglia. Il mio nome non le deve interessare. E’ sufficiente?”
Il medico non rispose. Per qualche istante rimase di fronte a quel pezzo di carne che giganteggiava su di lui, e solo balbettò un niente incomprensibile. Alla fine si fece da parte.
* * *
“Certo che sei messo proprio male, amico! Stavolta mi sa che… ‘Fanculo! Tanto qui è sempre lo stesso. Non c’è niente per cui valga. Tu mi capisci, lo so. E’ tutta una merda colossale. Se penso che ancora non l’hai fatto quel maledetto stronzo, mi vien da ridere… ‘Fanculo! Funziona niente dalle nostre parti. Col buco che t’hanno fatto, mi sa che lo caghi da qualche parte, forse dal buco sbagliato… Non ci badare a quello che dico. E’ che non so che dire. Se solo non fossi tornato a casa… Ma forse era così che doveva finire. Quelli come noi finiscono male o non finiscono, qualsiasi cosa possa significare. Non m’è chiaro manco a me.” Finse d’asciugarsi una lagrima. Era un duro: non poteva permettersi di piangere come una femminuccia. “Tu cantavi sempre… Ecco… Te la canto… Era così… I’m singing in the rain/ Just singing in the rain/ What a glorious feeling/ I’m happy again… ‘Fanculo! Resisti. Resisti. Ti faccio fare una cosa. Ma tu resisti…”
* * *
Entrò una cavallona, almeno così sembrava se guardata con occhio poco attento.
Quella, quella non guardava nessuno in faccia: sapeva dove andare.
Scostò le lenzuola dal corpo del ragazzo in coma: puzzava di medicina, di morte. Glielo prese in bocca e cominciò a succhiarglielo, prima piano, poi con foga affannosa. Stette con quel coso in bocca per un’ora almeno. Alla fine, venne.
Il Sandrone si spense pochi minuti dopo che gli avevano staccato il pompino. Di sé lasciò solo il cadavere, una cosa brutta, flaccida.
* * *
Davide se ne stava seduto tutto pensieroso, ma lo scalino, senza la compagnia del Sandrone, non gli pareva lo stesso. Ricordava ogni parola dell’amico, ogni finta speranza caduta in frantumi, ma soprattutto aveva ancora in bocca il sapore rancido del suo seme. Anche volendo, lui non avrebbe potuto fare di più. Ci aveva provato a raccattare una vera puttana che facesse l’ultimo – e forse l’unico – servizietto all’amico morente: e l’aveva pure trovata. Peccato che non avesse un soldo bucato in tasca; e si sa che le puttane non sono dame di carità. Alla fine s’era risolto a farglielo lui il servizietto.
Era tempo di scollare le chiappe. Era tempo di provare a vivere in un’altra città: qualunque posto gi sarebbe andato bene purché lontano da M. Quella città gl’aveva preso abbastanza. Morire per morire, tanto valeva che tirasse le cuoia lontano da M. Non aveva niente tranne due post-it, quelli che furono del Sandrone: adesso erano diventati suoi, l’eredità che, prima o poi, avrebbe lasciato ad un altro come lui.
Epitaffio
Cercherai d’esser migliore
cercando tutta l’attenzione
che gli uomini non ti hanno dato.
Solo cercherai d’esser migliore
vagolando come anima in pena
fra le ombre del tuo passato.