Liliana Adamo da Altrenotizie.org
Nel “paese delle meraviglie”, cuore pulsante dei primi nativi americani, a nord ovest del Wyoming, fra Montana e Idaho, sede dello Yellowstone National Park, perfetto wildland per orsi grizzly, lupi, mandrie di bisonti e alci, in un caldo venerdì del 2 agosto scorso, rompendo una tregua durata nove anni, il famoso Geyser Steamboat, il più grande su scala mondiale, si è risvegliato con un getto che ha raggiunto i novanta metri d’altezza. Nella stessa zona, il centro geofisico dell’University of Utah registra uno sciame sismico con un’intensità crescente. Tutto nella norma?
Il più antico parco degli Stati Uniti (1872), istituzione di fama mondiale a difesa di un ecosistema unico in aree temperate, si estende su un altipiano di 8980 chilometri quadrati e su tre caldere attive. Sebbene il termine “supervulcano” (nome attribuito durante un documentario della BBC), pare non si riferisca allo spettacolo sovradimensionato dei suoi geyser, ma alle potenzialità distruttive, dalle tre grandi eruzioni avvenute in successione 2,1 – 1,3 milioni e 640.000 anni fa, si formarono rispettivamente la caldera d’Island Park, quella di Henry’s Fork e di Yellowstone.
Dalla prima eruzione, presumibilmente la più potente in assoluto, si sviluppò il Ridge Tuff, la più grande formazione di tufo localizzata nel nord dell’America, mentre, si sa che l’eruzione più “recente” ebbe un impatto devastante sull’intera superficie, che fu investita da nembi di cenere, inversione del clima, estinzione di molte specie, cancellazione d’ogni forma di vita per migliaia di chilometri. Questi i fatti legati all’archeologia della sismogenetica, ma se veniamo alle ultime scoperte, pare che Yellowstone ci riservi un futuro altrettanto apocalittico.
Il Dipartimento di Geologia e Geofisica dell’Utah University, non si è limitato a registrare l’escalation sismica intorno al supervulcano sotterraneo, comunicando lo studio di una task force, guidata da Jamie Farrel e Bob Smith, per illustrarne i contenuti all’American Geophysical Union, che, a sua volta, li ha pubblicati sul proprio “Journal”.
Con risultati sorprendenti: nuovi strumenti di controllo hanno palesato proporzioni diverse rispetto a ciò che si credeva in precedenza; l’insieme di rocce incandescenti sotto la superficie del parco (che vanta un’estensione di tre stati, come abbiamo visto, Wyoming, Montana e Idaho), è pari a novanta chilometri di lunghezza, ventinove di larghezza e quattordici di profondità. Secondo i geofisici, la camera magmatica misurerebbe in larghezza, 480 chilometri, considerando che è stata alimentata per due milioni di anni.
In pratica, ciò equivarrebbe a un’eruzione potenziale superiore duemila volte circa, a quella di Mouth St. Helens (Washington DC), avvenuta il 18 maggio 1980, quando un potente terremoto fece collassare la parete nord del vulcano, liberando milioni di metri cubi fra gas, rocce e lapilli mentre una colonna di fumo (con un’altezza di ventiquattro chilometri nell’atmosfera), si riversava su undici stati americani. Un evento, quello del St. Helens, non solo distruttivo ma che “ridicolizzò” l’intera comunità scientifica, giacché fino allora, la stessa, l’aveva considerato “inattivo”, privo d’alcun rischio.
Come cultori di una civiltà tecnocratica e liberista, siamo abituati a considerare gli eventi legati alla fenomenologia naturale, situazioni in qualche modo controllabili o manipolabili grazie ai mezzi coercitivi cui disponiamo. Ciò nonostante, nel caso che il supervulcano Yellowstone dovesse esplodere oggi, si può soltanto pensare a contenere i danni. Limitatamente. Le conseguenze colpirebbero il mondo intero, con un impatto devastante sulle sorti del clima (l’offuscamento della luce solare produrrebbe un repentino abbassamento delle temperature terresti fino a -20°).
Yellowstone (come le Hawaii), domina una vasta area che la moderna geofisica definisce Punto Caldo stazionario del pianeta (Hot Spot), sopra il quale scorre la placca nordamericana. Strati rocciosi liquefatti sotto la crosta terrestre, spingono e tendono a uscire in superficie, in modo del tutto simile a un’attività vulcanica (vedi i Campi Flegrei in Campania). Dalla fuoriuscita di lava basaltica attraverso ciclopiche colate incandescenti, si è formato in diciassette milioni di anni, il maestoso canyon dello Snake River Plain, tra gli stati del Wyoming, Idaho, Oregon e Nevada. Tutte le caldere, dalla più antica, a cavallo tra Mc Dermitt, in Nevada e l’Oregon, fino alle formazioni più recenti, si congiungono all’enorme Plateau dello Yellowstone, in una sorta di cerchio di fuoco.
Gli studiosi presumono che se ci fosse un rush su larga scala, il nordovest degli Stati Uniti sarebbe completamente distrutto, lo Yellowstone annienterebbe ogni cosa nel raggio di 160 chilometri da subito. Come abbiamo detto, l’eruzione arrecherebbe un brusco raffreddamento del pianeta con scenari davvero imprevedibili.
Speculazioni pseudo scientifiche esercitate da un manipolo di ricercatori universitari in cerca di notorietà? Difficile pensarlo, visto che anche la serissima rivista Nature, sembra avvalorare le tesi del team Farrel/Smith, così come il Centro di Ricerche di Londra ipotizza una sorta “d’inverno nucleare” calcolando la prossima eruzione in un arco temporale tra il 2012 e il 2074.
Proprio la rivista scientifica Nature (nel febbraio del 2012), è stata la prima a divulgare una ricerca francese, (coadiuvata da Timoty Druitt per l’Università Blaise Pascal a Clermont-Ferrand), che penetra nel motore dei supervulcani, con l’obiettivo d’individuare segnali di previsioni per imminenti, disastrose attività esplosive. Lo studio calcola i tempi con cui si è ricaricato il serbatoio di magma sull’isola vulcanica di Santorini, che non appartiene alla categoria dei supervulcani, ma fu artefice, nel 1600 a.C. di una catastrofica eruzione, simile alle capacità di queste particolarissime strutture, in grado di sprigionare in un solo colpo, tutta l’energia accumulata, migliaia di chilometri cubi di materie incandescenti miste a gas.
I test, molto complicati, rivelano come il serbatoio di Santorini avrebbe iniziato a ricaricarsi cento anni prima e quindi, sostanziali cambiamenti nella composizione magmatica, potrebbero avvenire in tempi brevi, in prossimità di un’imminente eruzione. Monitorare le riserve laviche in caldere molto grandi e potenzialmente pericolose, potrebbe dunque aiutare a individuare eventuali cambiamenti e prevedere, appunto, un’incombente eruzione con quel che ne consegue.
C’è da osservare che le zone vicine al Plateau rosa (così chiamato per il colore delle sue rocce e dei geyser), si sollevano in modo continuo (fino a trenta centimetri), si riscontrano cambiamenti del clima e disordini deformativi del suolo. Dal 2004 si sono verificati circa 3000 terremoti l’anno. Una nuova ondata di terremoti è iniziata il 10 settembre del 2013 e prosegue tuttora. Nasa e Us Navy hanno chiuso i battenti e, senza un motivo apparente, hanno abbandonato il luogo. Qualcuno sostiene nientemeno che i Fema (fantomatici campi di detenzione originati trent’anni fa, utilizzati per fronteggiare stati d’emergenza, catastrofi naturali o guerre) si preparerebbero come se, da un momento all’altro, dovesse sopraggiungere un cataclisma continentale…