Magazine Opinioni
E' di ieri la notizia di un nuovo attacco condotto con droni USA in Waziristan, Nord del Pakistan, che ha causato la morte di 18 civili. E' di ieri l'altro, la notizia clamorosa dell'allontanamento del Presidente yemenita Ali Abdullah Saleh da Sana'a, ufficialmente per farsi curare in Arabia Saudita, dopo il raid degli insorti di sabato scorso (in realtà, i sauditi hanno provato a riprendere in mano la situazione nel Paese per evitare il rischio di una nuova guerra civile). Cosa accomunano questi due Paesi così lontani ma molto vicini tra loro? In realtà di fattori ce ne sarebbero numerosi (ad esempio l'instabilità politica di entrambi, l'alta corruzione a tutti i livelli di potere, il fenomeno qaedista, la crisi economica ed intellettuale, etc.), ma il comune denominatore è un altro: il loro destino incerto.
Sono passati più di vent'anni da quando il terrorismo fondamentalista qaedista ha trovato la sua base politica e logistica in questi due Paesi altamente strategici per la lotta al terrore proclamata dagli Stati Uniti dopo l'11 settembre 2001. AQAP e la divisione talebana alleata di al-Qaida nella regione AFPAK (Afghanistan-Pakistan), hanno loro infiltrati in numerosi centri di potere, persino nei servizi segreti, come hanno dimostrato le simpatie di alcuni agenti dell'ISI, il controspionaggio pakistano, prima della morte di bin Laden. Queste formidabili sigle terroristiche sono arrivate a controllare zone strategiche del territorio dei rispettivi Paesi costruendo un network continuo e interconnesso che va dal Marocco fino alle Filippine. Il fenomeno terroristico in questi Paesi ha un ruolo primario perché, nel bene e nel male, ha segnato la vita di entrambi lasciando un grande punto interrogativo sui rispettivi futuri. Cosa succederà allo Yemen (post-)Saleh e al Pakistan? Sarà un ritorno al tribalismo o vincerà l'anarchia politica-terroristica? Ci saranno ripercussioni nei Paesi vicini, altrettanto importanti e strategici per gli Stati Uniti, come l'Afghanistan e l'Arabia Saudita? Le domande sono tante e tutte legate a doppio filo tra di loro.
Yemen
Il Presidente Saleh, salito al potere nel 1978 nello Yemen del Nord, lo è dal 1990 nello Yemen riunificato. Le proteste di questi mesi ne hanno messo in crisi il regime pluri-trentennale. Sebbene, Saleh abbia dichiarato di rinunciare alla ricandidatura per le elezioni che si sarebbero dovute tenere lo scorso aprile, ha dichiarato di aver cambiato idea e di non voler abbandonare il Paese non prima delle parlamentari 2012 per evitare di creare un pericoloso vuoto di potere. Riyadh e Washington, principali partner di Sana'a, guardano con molta apprensione alla situazione yemenita. Sia l’Arabia Saudita – che ha sempre avuto interesse ad esercitare la propria influenza sul suo vicino meridionale e tradizionale alleato e finanziatore di Saleh – sia gli Stati Uniti – benché lo Yemen sia un Paese poverissimo, esso è vitale per la stabilità dell’Arabia Saudita – nutrono grandi interessi geopolitici e geostrategici nello Yemen e nella regione del Golfo in generale, in quanto dalle coste yemenite si controllano le rotte marittime e commerciali dell’Oceano Indiano e dello stretto di Ba bel-Mandeb, che dà accesso al Mar Rosso. Si tratta di acque di rilevanza strategica mondiale già minacciate dall’instabilità della vicina Somalia e dalla presenza del fenomeno dei “pirati”. Sia Riyadh sia Washington sono preoccupati, principalmente, dalla minaccia AQAP (al Qaida in Arabian Peninsula) nel caso di uno sfaldamento del governo yemenita. Riyadh teme i possibili sviluppi nello Yemen in chiave settaria, in quanto la monarchia dei Saud, roccaforte del sunnismo wahabbita, teme che un deterioramento del potere centrale di Sana’a contribuisca a rinfocolare la ribellione degli sciiti Houthi. Questa rivolta potrebbe essere una sponda ideale per gli sciiti presenti in Arabia Saudita e, infatti, il governo non ha perso tempo ad inviare più di 10.000 soldati nel Qatif, regione a maggioranza sciita e la più ricca di petrolio della regione. Washington, invece, nel timore qaedista, ha tradizionalmente appoggiato e finanziato il corrotto regime di Saleh (gli Stati Uniti hanno fornito a Sana'a in questi anni circa 20 miliardi di dollari), considerando il Presidente yemenita un alleato chiave nella lotta al terrorismo. Nonostante gli ingenti finanziamenti statunitensi nell'area, le politiche di Saleh hanno solo aiutato a radicare ancor di più al-Qaida nel Paese. Allo stesso tempo quello che temono tutti è il rischio di una nuova secessione del Sud che potrebbe mettere seriamente a rischio non solo la già fragile tregua saudita, ma anche la stabilità della penisola arabica innescando un meccanismo di rivolte e crisi di governo nei Paesi più Prossimi (Oman e Arabia Saudita).
Pakistan
Dopo l'11 settembre e l'attacco della Nato all'Afghanistan, il Pakistan, suo malgrado, ha dovuto abbandonare formalmente il sostegno ai Taliban e ha dovuto offrire sostegno logistico e politico alla missione dell'ISAF (a partire dal 2001 gli USA hanno fornito a Islamabad circa 13 miliardi di dollari in aiuti militari ed oltre 6,5 miliardi in aiuti economici) per debellare uno dei principali regimi sostenitori del terrorismo internazionale qaedista. Da quel momento, il Paese è sprofondato gradualmente nel caos più totale. Dapprima, l'abbandono annunciato in diretta TV del generale Parwaz Musharraf dopo 10 anni di duro regime militare – in cui ufficialmente si dichiarava l'appoggio alla causa occidentale, ma allo stesso tempo si finanziavano i Taliban. In secondo luogo, l'assassinio di Benazir Bhutto a fine 2007, la cui eredità politica è stata colta dall'ex marito della Bhutto e attuale Presidente della Repubblica pakistana, Asif Ali Zardari. Oggi le istituzioni del Paese si trovano sotto il tiro incrociato delle fazioni islamiste legate alla galassia qaedista – il LET o il TTP, sigle terroristiche accusate di aver indebolito il Paese con una lunga serie di attentati e accusate di controllare le terre del Nord, come il Waziristan, il Punjab e il Kashmir pakistano – e sotto le accuse di collaborazionismo con questi movimenti da parte di USA e NATO, che pretendono appoggio non solo logistico ma anche un'azione ben più incisiva contro le fazioni islamiste interne. Le aree a nord di Islamabad hanno visto la presenza di numerosi gruppi jihadisti pakistani dove negli ultimi anni ci sono stati diversi scontri con i militari pakistani. Non a caso proprio in queste zone è stato trovato il covo di bin Laden, scenario del famoso blitz dei Navy Seals. Gli ultimi avvenimenti hanno segnato, probabilmente, anche l’inizio di uno spostamento del teatro di guerra dall’Afghanistan al Pakistan, a causa delle pesanti accuse lanciate dagli USA, negli ultimi mesi, contro l'intelligence pakistana, colpevole di tenere ancora in piedi strette relazioni con la cellula terroristica dei Taliban guidata da Jalaluddin Haqqani che fornisce armi, addestramento e risorse ai guerriglieri che combattono le truppe della coalizione in Afghanistan. Dal canto loro, i vertici delle forze armate pakistane stavano chiedendo con sempre maggiore insistenza una drastica riduzione della presenza della CIA in Pakistan e, soprattutto, un ridimensionamento del programma militare USA incentrato sui droni, gli aerei senza pilota che bombardano le zone nord-occidentali del Pakistan, al confine con l’Afghanistan, spesso uccidendo civili oltre che militanti talebani, e che sono odiati da molti pakistani. In tutto ciò si è assistito al fallimento di un intero sistema statale, complicato e insanguinato dalle contraddizioni etniche e religiose che contraddistinguono il Paese e che sembrano ormai diventate croniche e irrisolvibili. Tutta la storia del Pakistan è caratterizzata da minacce che ogni volta provengono da un problema diverso. Ad esempio, dalla secessione del Bengala Orientale (oggi Bangladesh) per arrivare agli eventi odierni in Baluchistan, in Kashmir e altrove, che rivelano quanto siano disperati i tentativi dello Stato di rimanere unito. Proprio per scongiurare ipotesi nefaste, sia Pakistan che USA hanno bisogno l'uno dell'altro. Se il Pakistan ha bisogno degli aiuti economici e militari degli USA, questi ultimi hanno bisogno del Pakistan per assicurare i rifornimenti alle loro truppe in Afghanistan, per bombardare quegli stessi gruppi militanti che segmenti dello Stato pakistano almeno in parte sostengono, ed, in generale, per garantire la presenza militare americana in Asia centrale.
Conclusioni
Il pericolo di una deriva anarchica in Yemen è molto concreto. Saleh tiene ancora nelle divisioni militari uomini di sua fiducia e anche tra la popolazione ha ancora molti sostenitori. Inoltre, anche se si accettano le condizioni per una transizione del potere politico dello Yemen, altri problemi persistono e vengono aggravati dalla crisi economica e dai disordini. L’escalation delle violenze nel Paese potrebbe avere conseguenze devastanti, soprattutto perché lo Yemen è diventato negli anni uno dei Paesi-chiave nel traffico illecito di armi (statistiche approssimative stimano la presenza di una media di tre armi per abitante, in un Paese dove le armi sono un fattore culturale). Eppure, osservando la dinamica delle proteste, quello che appare evidente non è un'unica grande sollevazione contro il potere centrale, quanto piuttosto una serie di proteste diverse e che rivendicano obiettivi molto diversi tra loro, dalle riforme costituzionali e della legge elettorale alla secessione del Sud, dal pericolo qaedista alle lotte sciite in funzione anti-saudita. In tutto ciò, quel che preoccupa tutti gli attori della scena internazionale è il possibile vuoto di potere che si verrebbe a creare da un tale ventaglio di possibilità.
Allo stesso modo il Pakistan comporta eventualità molto simili: il vuoto di potere che già in parte esiste in merito al fatto che Islamabad non riesce a controllare l'eterogeneo e variegato territorio pakistano, la presunta spaccatura tra una parte dei servizi segreti (alcuni reparti sarebbero legati da interessi vari a fazioni pro-Taliban) ed esercito (anche qui una parte è fedele al governo e un'altra, cavalcando la rabbia popolare e anti-americana, si sposta verso posizioni più estreme e doppiogiochiste). Così la morte di bin Laden, anziché segnare un punto di svolta nella politica antiterrorista americana, ha incrementato gli attacchi dei miliziani jihadisti su suolo pakistano e di conseguenza ha implementato le azioni militari statunitensi nell'area, esacerbando, di converso, il conflitto afghano. Infatti, l'instabilità afghana pur essendo caratterizzata dalle tensioni e dalle vicende che avvengono in Pakistan, risente soprattutto delle dinamiche geopolitiche regionali: la rivalità fra India e Pakistan per il Kashmir, il confronto permanente Iran-Pakistan per il Baluchistan, le mire della Russia per uno sbocco sul mare a Sud e gli interessi della Cina in funzione anti-islamica in Asia Centrale.
Se ne evince una “guerra” di tutti contro tutti, dove gli interessi, come sempre, giocano un ruolo prioritario. Inoltre, non è detto che attraverso un accordo o una tregua tra le parti si raggiunga l'obiettivo sperato: ossia “normalizzare” o, quanto meno, rimettere in sesto situazioni altamente pericolose con il rischio, invece, di derive assai più pericolose, come una vera e propria disintegrazione di uno Stato. L’appoggio a regimi autoritari e corrotti è stato spesso giustificato dall’Occidente e dal mondo islamico come l’unico modo per impedire il dilagare del terrorismo nella regione. Il “fermento arabo” di questi mesi sta facendo ricredere molti e ci sta insegnando che i magri risultati ottenuti, a causa di compromessi azzardati, hanno in realtà implementato i fattori di instabilità e di rischio nei Paesi in questione. Pertanto, Paesi come lo Yemen e il Pakistan potrebbero essere, in un futuro neanche troppo lontano, i prossimi “Stati Fantasma” (failed states) da aggiungere alle carte geografiche.
L'augurio è che la Somalia prima, e le rivolte di questi tempi dopo, abbiano insegnato qualcosa.
* Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)
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