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Il dopolavoro della manovalanza europea è a Place Lux, proprio in bocca al Parlamento. C'è una rotonda con un fazzoletto d'erba e fiori al centro, costeggiata da bar e locali in cui gli inni sacri sono house music sempre troppo alta, dove la messa inizia alle sei e si chiama spritz. Il giovedì, a Place Lux, sembra non esista nessun altro posto al mondo. La cravatta ancora al collo, solo leggermente allentata, il vestito buono color grigio asfalto (siamo a un giorno dal week-end, e il grigio asfalto è il colore del giovedì, prima dell'azzuro/beige da finesettimanista nelle Ardenne, dopo l'ardesia), e uno spritz tra le mani. Nell'altra, spesso, c'è una cartellina nera, con dentro gli appunti di quell'action plan che dev'essere pronto entro lunedì, i documenti firmati per lo stage, e un biglietto per andare a vedere Anderlecht - Zulte Waregem la domenica dopo. L'altra sera ero proprio lì, a Place Lux, a mio agio come uno Zulù ad un cocktail dai Kennedy.
L'associazione di cui faccio parte, promuove la musica italiana in Belgio. Niente tricolore, da nessuna parte, niente serate "pizza per scugnizzi" con guest star il sosia di Nino D'Angelo, niente Ramazzotti, Nek, Pausini, piuttosto Gazzè, Meganoidi, Battiato, Colapesce, Capossela, Silvestri etc. Insomma, mi trovavo nella tana del leone per distribuire un po' di volantini; siamo a corto di volantinatori e, anche stavolta, è toccata a me. Il concerto in questione era ieri, e si trattava degli Africa Unite. Ad aprire Marcello Coleman degli Almamegretta, poi Ru Catania (Africa Unite) con i Pellicans, gli Africa alle 21:30 e per concludere un dj-set senza fine con Bunna e Tringle Loop Machine; in pratica una serata intensa. Io, che non ho mai ascoltato reggae in tutta la mia vita (e lo dico, inspiegabilmente, con una punta d'orgoglio), anche se temo sia un "problema" mio, l'incapacità di cogliere il senso della fascinazione per il reggae che, quasi chiunque ha subito nella propria vita, ero comunque entusiasta. Per la musica, per le molte persone a cui tengo, con cui collaboro e che sarebbero state presenti, per le moltissime che nemmeno conosco, perché stare insieme in un posto in cui qualcuno suona è sempre un'esperienza bellissima.
Allora, col migliore dei miei sorrisi, inizio la flagellazione dividendo mentalmente Place Lux in quadrati. Mi sento Super Mario, un livello ad ogni quadrato, una vita in meno ogni volta (e sono tante) in cui uno sguardo fin troppo eloquente mi fa capire che la merce non interessa. Cercando di non notare l'aria di sdegno di alcuni dei presenti, salto a piè pari gli stagiaires svedesi - non mi si additi per discrimazioni razziali, per piacere; la probabilità che ad uno di loro possa interessare il concerto di una band reggae di una band italiana che canta in italiano è pari a quella che a un italiano possa interessare il concerto di una band reggae svedese che canta in svedese -, e mi dirigo verso un gruppetto di maschi latini incravattati con evidenti tratti Baùsciani a vista. Uno di loro prende il volantino, lo esamina con aria di sufficienza, per poi proferire tronfio e soddisfatto "Mah ... A me sembra solo una gran comunistata". Basita, gli chiedo in che anno è nato. '82, risponde. E' dell'82, il ragazzino. Eh si, lui se lo deve ricordare bene di com'erano belli i fasci e di come noi ci mangiavamo i bambini all'uscita dalle scuole. E non è tanto perché, in questo modo, si è appena autodefinito fascista (per la legge degli opposti, se per te io sono una comunista, tu devi essere per forza un fascista), nemmeno il fatto che ridurre tutto, sempre e comunque, a due poli agli antipodi e riassumibili con "comunista" "fascista", è come dire che il mondo si divide in merda e oro (quale sia la prima e quale la seconda, ovviamente, dipende dai punti vista); più che altro, ad infastidirmi, è che io sto semplicemente dando un volantino per un concerto, stiamo parlando di musica, porca miseria, MU-SI-CA.Glielo dico, di calmarsi che non l'ho invitato al cinquantennale dell'associazione "Amici del Che", semplicemente ad un concerto, e che se io, che sono COMUNISTA, non ascolto reggae, lui che è FASCISTA, magari il reggae lo ascolta eccome; come potrei saperlo io? Dovrei giudicare da quel vestito da agente immobiliare in cui è imbustato?
So che il reggae - come tanti altri, del resto - non è un genere scevro da pregnanze politiche e sociali e che, quindi, si presuppone che chi lo ascolta sposi anche la causa che esso porta in seno. Ma ad oggi, 2013, è davvero ancora così forte il legame tra i generi musicali e il loro messaggio? O meglio, rettifico, c'è ancora la consapevolezza profonda e sentita di suddetti messaggi? Io non credo. La globalizzazione, anche nella musica, ha diffuso e amalgamato i suoni; e l'arte, che vive e trova il suo senso più pieno nella fruizione, non può che farsi portavoce (o svuotavoce) di nuovi messaggi, diversi a seconda del momento storico in cui viene fruita e da chi ne fruisce. Fosse così, uno stagiaire della commissione cosa dovrebbe ascoltare, nient'altro che lounge music e jazz sperimentale? Ed io, che lavoro in una libreria italiana a Bruxelles? A quale genere dovrei rifarmi visto il mio ruolo e rango nella società? Cantautorato, italiano perché La P. è un posto di italiani e su 45 giri perché vendiamo libri cartacei invece di e-book?
E mentre penso tutto questo, penso anche che questa, avrebbe dovuto essere la generazione del futuro europeo. Futuro? Quale? A cosa cazzo serve l'Europa Unita se stiamo ancora a fare 'sti discorsi? Perché ho l'impressione che pochi abbiano colto l'importanza di ciò che avrebbero potuto fare, che andava ben oltre l'opportunità formativa o lavorativa in sè, ben oltre lo stipendio da commissionabile, il lavoro figo, i meeting aziendali a Mallorca, la stretta di mano ad Angela Merkel, il welcome party per le nuove leve con centinaia di bandiere europee sullo sfondo, la possibilità di viaggiare e avere colleghi nati e cresciuti in posti agli antipodi.Il senso di tutto questo non doveva essere un manipolo di giovinastri incravattati che si sbronzano davanti al Parlamento, pensando di essere avanti anni luce rispetto a chiunque altro per il solo fatto di starsene sei mesi a Bruxelles a manovalare nelle istituzioni. Stando agli intenti, avremmo dovuto trovarci di fronte ad una generazione β di esseri umani provenienti da ogni dove, che hanno avuto l'opportunità di lavorare fianco a fianco su progetti comuni, avendo come fine la produzione di miglioramenti concreti per l'armonia di una comunità di Paesi. Avremmo dovuto trovarci di fronte al respiro mentale, a persone che finalmente comunicano in quanto tali, abbattendo il pregiudizio e la discriminazione, proprio perché protagonisti di un (supposto) cambiamento epocale che avrebbe stravolto i confini tra i Paesi. E invece, a guardarsi intorno sale l'angoscia alla gola, come un grumo di capelli dal lavandino. Li senti fare discorsi assorbiti nei rispettivi contesti sociali e familiari, allo stesso modo in cui li avrebbero fatti al bar sotto casa quando erano adolescenti, con la differenza che ora li sanno fare in tre lingue e con la cravatta addosso.
Il senso di tutto questo doveva essere la morte del pregiudizio, o almeno di buona parte di essi; doveva essere il superamento delle etichette, di quella cancrena politica e sociale in cui siamo cresciuti e che è cresciuta con noi; il senso doveva essere capire, aprirsi il cranio in quattro e lasciarci entrare tutte le cose del mondo; il senso doveva essere la trasformazione, la crescita umana, la comprensione, la capacità empatica, la presa di coscienza che noi siamo gli altri e gli altri sono noi.
E' questa, allora, le generazione che cambierà il mondo?Alla cancrena politica e sociale, si sarà affiancata, inevitabile, quella umana? E' questa l'Europa Unita? Yes we can o yes week-end?
Silenzio.
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