A coprirle i capelli un fazzoletto chiaro, un abito lungo seguiva senza mostrarne il corpo. Scendeva delicato, come il Reno su Bologna, a vestire il suo quartiere: Lame. Viveva del Savena il fossato, deviato a San Ruffillo dalla chiusa. Riesco a contare centodiciannove mulini mossi dalle sue acque. Ancora, l’immagine di questa donna che torna, due operai l’aspettano all’uscita della fabbrica, le buttano acqua ai piedi. La carmencita petroniana tira su di quattro dita il suo abito. Mostra così le caviglie: ride… dei due ingenui ché arrossiscono nel guardarle. Ride di noi la storia , questo raccontare finalizzato, organico, dove tutto si intreccia e ruota attorno a grandi nomi, figure simbolo di un epoca… simboli del potere, il quale si racconta, così ordinato, così legittimo. Estetico. Si giustifica, si incorona riducendo la stessa storia ad un concatenarsi di guerre ed omicidi, un rapporto tra cause ed effetti, interrotta da qualche breve parentesi di scienza e di ragionevole, educata, innovazione. Umano, troppo umano. Quasi deludente. Memoria del passato, memoria del presente, di luoghi, associazioni, immagini e sensazioni come ingressi sporadici al sentiero del ricordo non vissuto. Collettivo. Memoria di vita, di strade, di case, quando ancora il via vai dei lavoratori tranquillizzava il passante. La strada, viva, era sicura. Diranno di aver coperto i canali perché non servivano più. Al loro posto mostre fotografiche, quadretti, disegnini che ricordano quanto erano graziosi quei rivoli sdraiati tra le vie della città. Sotterrati come cadaveri. La Manifattura poi spostata su via Ferrarese, nella Bolognina, oggigiorno chiusa, ospita figli di nessuno, gente dimenticata da tutti tranne che dal freddo. Scavalca i luoghi dell’abbandono la miseria, e lì si sdraia, cercando riparo, riposo, nella notte. Trovo ironico come i suoi muri siano soliti diventare simbolo degli ultimi d’ogni epoca. Scorro qualche titolo di vecchie testate giornalistiche, ci vedo, al di là dei titoli, l’attaccamento al lavoro d’una classe operaia unita nello sciopero, che andava traducendosi in un attaccamento al territorio, nell’esigenza di una sua tutela. Lavoratori come nomadi durante gli sgomberi dei gendarmi. Ora in Via Riva Reno del Mulino resta una cineteca, il Lumiere, mentre del forno del pane un museo, il Mambo. L’hanno chiamata la Manifattura Delle Arti, una bella cosa, ma …in Via Ferrarese, quando arriva l’Estate, dai palazzi di Via Otello Bonvicini è possibile guardare dentro e oltre il muro di cinta della nuova ex tabaccheria in disuso, e vederle vivere queste persone, fatte di carne ed ossa, un miscuglio di etnie accomunate tutte dalla povertà. La storia delle grandi guerre si dimentica di loro. Li sento urlare, ridere, a volte gridare nel gioco. Si svegliano sul tetto di catrame della fabbrica, illuminati dal sole, sdraiati alla brezza della sera, dormono lì. Spesso mi fermo ad osservarli. Così la vedo, questa ex tabaccheria vivere di loro, silenziosa, nei suoi intonaci, scettica nei suoi binari, in disuso, interrotti. Ferma. Misura il tempo e questo nostro scorrere insieme.
Magazine Talenti
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