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Andrzej Mandalian

Da Paolo Statuti
Andrzej Mandalian

Andrzej Mandalian

Andrzej Mandalian, poeta, prosatore, sceneggiatore cinematografico polacco, nacque a Shangai il 6 dicembre 1926. La madre polacca e il padre armeno erano membri del Komintern (Internazionale Comunista). Nel periodo delle grandi purghe staliniane il padre venne fucilato nel 1939 e la madre fu imprigionata. Sarà rimessa in libertà soltanto alla fine della II guerra mondiale. Mandalian iniziò gli studi di medicina a Mosca e, tornato in Polonia nel 1947, li portò a termine a Varsavia nel 1951. Con Tadeusz Borowski, Wiktor Woroszylski e Tadeusz Konwicki faceva parte del gruppo dei “brufolosi”, così chiamati ironicamente a causa della loro giovane età. Essi erano convinti fautori del realismo socialista ed elogiavano il regime politico polacco. Già in URSS aveva scritto i suoi primi versi. In quel periodo la sua prima lingua era l’armeno, che in seguito dimenticherà quasi del tutto, la seconda era il russo e la terza il polacco. Dopo la morte di Stalin trovò nel rapporto Chruščov il nome di chi aveva ucciso il padre. “Mi soffia negli occhi un vento nero” – scrisse nella sua “Autocritica” del 1956. Inoltre nel 1955 era stato pubblicato il famoso “Poema per gli adulti” di Adam Ważyk (v. il poema nella mia traduzione in musashop.wordpress.com) – un’aspra critica dello stalinismo imperante in Polonia in quegli anni, pietra miliare nella cosiddetta letteratura del disgelo. Come molti altri, anche Mandalian ebbe il suo ravvedimento politico e passò all’opposizione. Ma da quel momento tacque a lungo come poeta, dedicandosi alla traduzione della poesia armena e soprattutto russa (Gumiljov, Mandel’štam, Brodskij, Okudžava, Evtušenko). Scrisse anche alcune sceneggiature cinematografiche, tra le quali quella per il film “La dama di picche”, per la regia di Janusz Morgenstein e Jerzy Domaradzki.

Grazie alle insistenze degli amici tornò alla poesia, “a fatica e senza troppa convinzione” – come egli affermò – , pubblicando nel 1976 la raccolta “Paesaggio con cometa” e nel 1981 “Esorcismi”. Nel 1976 firmò la protesta contro le modifiche restrittive della costituzione e cominciò a collaborare con la stampa clandestina. Dopo un altro ventennio di silenzio e dopo la morte nel 2000 dell’amata consorte Joanna, slavista, saggista e professoressa di scienze filologiche, Mandalian pubblicò un volume di commoventi versi dal titolo “Brandello di sudario”. Il ciclo “Campana a morto” è un colloquio lirico con la defunta, profondamente personale, riflessivo, sussurrato. Il poeta parla della sua situazione esistenziale, della vita, e soprattutto della scomparsa della persona più cara.

Nel 1985 uscirono i racconti lirici brevi “Non sia mai” e nel 1993 la raccolta di racconti autobiografici “L’orchestra rossa”, la cui azione si svolge durante la II guerra mondiale, e descrive la difficile odissea verso lo spirito polacco, vissuta dal figlio di entusiasti e al tempo stesso vittime della rivoluzione comunista. Il critico letterario Ryszard Matuszewski afferma che questo quadro rappresentato attraverso la storia della realtà sovietica, è disegnato con una vena umoristica demistificatrice alla maniera gogoliana.

L’ultima raccolta di versi di Mandalian s’intitola “Il poema della partenza” (2007). E’ un reportage poetico finemente costruito nello scenario della Stazione Centrale di Varsavia, una metafora del nostro viaggio terreno. Incontriamo con il poeta gli emarginati della città: senzatetto, mendicanti, ubriachi di ogni tipo, la donna della latrina, la prostituta della stazione, la vecchia che si prende cura dei gatti… Dice la scrittrice Joanna Szczęsna: “… è come scendere nei vari cerchi dell’inferno dantesco, come una meditazione sulla Passione del Signore… La grandezza di questo poema è in ciò che costituisce il mistero della vera poesia, che tocca le corde dell’anima, che avvicina a ciò che non si può definire e che non si lascia definire, che rende familiare l’ineluttabile.”

     Paolo Statuti

Da questa ultima raccolta ho scelto e tradotto quattro poesie, che insieme con il “Lamento per san Giorgio” pubblico oggi sul mio blog.

Andrzej Mandalian

Lamento per san Giorgio

San Giorgio non esiste Non è morto

Né trafitto dalla lancia né con la lancia in mano

Né vincitore né morto da prode Non sulla sella

Né gettato di sella Non fu

Sottoposto a dura prova dai pagani

Né venduto né condannato al martirio

Né immerso nel piombo nella pece nell’immondizia

San Giorgio non è mai esistito

San Giorgio non fu san Giorgio

Le deposizioni di testimoni degni di fede

Non permettono di stabilire l’identità

Si parla di subdole icone

Di leggenda fraintesa L’armatura non era un’armatura

Il cavallo non era un cavallo le gesta non erano gesta

La vergine presente al fatto è scomparsa senza tracce

L’occhio della provvidenza ammicca anziché rispondere

E non servono più le tavole dipinte

Le tele stillanti oro la pietra rozzamente scolpita

San Giorgio non esiste

Il canone della virtù cavalleresca fu creato

In circostanze sospette

Secondo alcuni da un paio di zingari

che vagabondavano con la luna e con la favola eterna

Secondo altri in una locanda da frati questuanti

Con la mani vuote certo ma col boccale pieno

A servizio di qualche impostore vagabondo

La Chiesa accolse la notizia con la dovuta riserva

Ma il popolo la prese subito per buona

Il drago affollò le terre il cavaliere levò la lancia

Per difendere le caste fanciulle e i dolci neonati

Adesso è tutto un abbaglio una sembianza illusoria

Ben presto si saprà che il drago non sputava fuoco

Né sferzava con la coda E’ vero diamine

Il mondo non si compone più di quattro elementi

Il mondo finisce

S’adegua all’occhio ingannatore

Che scorge solo il multiforme anziché l’unità

Nessuno bada più alla liturgia ambrosiana

Nulla più vale la parola di papa Gelasio

San Giorgio è stato abolito

Tutto in regola

Nessuno più cavalcherà nei campi con la bianca armatura

Con la rossa croce

Nessuno più si mostrerà alle schiere presso Gerusalemme

Nulla rimarrà della leggenda nulla resterà delle gesta

Ma che accadrà della fanciulla

Fino a quando deve mantenersi casta

Che accadrà dei neonati

Fino a quando si riuscirà a tacere

In verità vi chiedo

Chi ucciderà il drago

Noi mansueti e poveri di spirito

Che facciamo fiduciosi la pace umili misericordiosi

Sempre puri di cuore Noi che soffriamo

Noi che piangiamo che abbiamo fame e sete

Noi la cui salvezza è tutta in questa frase

La realtà è menzognera e la vita fallace

Strappandoci a brandelli gli abiti da lutto noi gridiamo

San Giorgio non esiste

Guidaci san Giorgio!

1972

La gattara

La gattara

ha il viso come nelle tele fiamminghe,

caparbio.

La bocca chiusa come una lampo,

solo dagli occhi di tanto in tanto

irradia un chiarore di latta.

I gatti sono nei sotterranei,

uno con l’orecchio lacerato,

un altro con la cicatrice negli occhi

(segno dei tornei

per la preda del tunnel).

Da un marciapiede all’altro.

I gatti sono riccamente colorati,

rossicci e striati,

sporchi a festa,

screziati come per la domenica.

La polizia è tollerante,

sa che è stata perdonata loro ogni illegalità

da quando hanno preso i sentieri dei giusti.

La gattara

ha il viso di una suora,

i colori: nero e bianco.

Dagli occhi irradia il suo chiarore celeste.

Nella borsa di plastica ha gli avanzi

per quelli che frequentano gli abissi della stazione,

per quello comprato nel sacco,

per quello che si nasconde dietro il recinto,

e per quello che mostra la coda.

La polizia chiude un occhio:

– Forse in ogni canale hanno già superato il test di utilità.

La gattara non risponde.

Sicura dell’inutilità del mondo intero,

cammina nella valle dell’ombra, ma non la teme,

va per la sua strada,

chiede qualcosa per i gatti.

– Come si strofinano a lei – sorride un poliziotto.

Lei si sbaglia, capo, non si strofinano affatto a lei,

ma è lei che si strofina a loro.

Dagli occhi irradia il ricordo del rogo,

il fuoco e il chiarore.

Ancora sente l’odore di bruciato,

in gola la puzza del pelo annerito,

in bocca il sapore della cenere.

Sia che chieda qualcosa per i gatti,

o qualcosa per se stessa –

grida per avere amore.

     *  *  *

Dov’è ciò che non è e non è mai stato?

Dov’è ciò che è

e che sempre sarà?

La vita se n’è andata con la nebbia – come fumo della pipa,

il sogno è cessato come la luna di chissà quale quarto,

sul verde prato come nella favola dell’infanzia

tra i cari amici i cani la lepre hanno sbranato (1).

Dov’è ciò che non è e non è mai stato?

Là, dov’è ciò che è

e che sempre sarà.

(1) Favoletta in versi di Ignacy Krasicki (1735-1801), in cui gli amici animali si rifiutano di proteggere la lepre (N.d.T.)

Elogio dell’incoerenza

– Eppure in questo deve esserci un senso! –

si lamenta con passione uno da dietro un pilastro.

La sua voce ha un unico tono,

un’ottava più alta dello sfondo della stazione,

solo un lieve affanno deforma le finali delle frasi.

– Niente succede senza un motivo qualsiasi,

ma non c’è nessuna causa – si rammarica da dietro il pilastro.

La sua faccia contratta in un cammeo

sarebbe priva di espressione,

se non fosse quel tratto nel fossile:

le labbra tremanti.

– Ma che diavolo dice? – chiede uno tra la folla.

– Quando non c’è nessuna causa,

non c’è un rapporto di causa-effetto! – chiarisce da dietro il pilastro.

– Treno espresso… da… a… – si soffoca rauco l’altoparlante.

– La trascendenza non la spieghi a parole…

In noi è umano solo l’inconoscibile – prosegue quello.

– E’ del tutto sbronzo – commenta uno tra la folla.

– La vita è bella,

ma in noi c’è tanta umanità,

quanta incoerenza –

coprendo il fragore del treno, si sporge dal pilastro.

– Porca puttana, ma è pazzo! Fermalo! – grida uno tra la folla.

Ma l’uomo è più svelto, è più deciso

delle ruote che girano…

– Era ubriaco fradicio – dice uno tra la folla.

Tempo scaduto

– Partenza, tempo scaduto – buffoneggia un ubriaco

scimmiottando il ferroviere,

mentre quello diligente

fischia sul predellino del vagone.

E hai appena chiesto quanto tempo ci è rimasto…

Tanto quanto ne hai impiegato nella dura lotta col finestrino.

Non supereremo questa fragile

lucente barriera del suono,

da cui tra poco spariranno le nostre ombre tremanti.

Non scambieremo parole di addio,

condannati al balbettio dei gesti,

al muto movimento delle labbra indocili,

dalle quali ormai nessuno leggerà

alcun messaggio.

Ciò che c’era da dire,

non verrà detto.

O misero linguaggio del corpo!

In fin dei conti niente di grave:

accettazione dell’assenza,

separazione dei sensi.

Ci è successo di separarci…

In fin dei conti è solo il silenzio

nelle cornette sollevate in fretta

quando squillano i telefoni di notte.

E anche la disperata corsa cieca sul marciapiede

dietro il battito che muore

e l’immergersi nell’oscurità

delle luci che a poco a poco si spengono.

– Devo andare da mia madre, non ho i soldi per il biglietto –

mi balbetta un ubriaco tra i binari.

Tiro fuori dalla tasca  qualche banconota sgualcita.

(C) by Paolo Statuti



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