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La lunga notte di Vincent Reed (L'INCIPIT)

Da Tuonolux
Aprimmo la porta e i nostri nasi si arricciarono all'unisono percependo l'odore nauseabondo che regnava nella stanza. Dalla finestra, la luce rosea di un giovane sole filtrava attraverso un sottile tendaggio ed illuminava il pulviscolo. Premetti l'interruttore della luce e, davanti agli occhi, ci apparve la più misera e sporca stanza d'albergo che mai uomo potesse immaginare.
“Ce la farai a resistere bambola?” Chiesi ad Elizabeth, e voltandomi nella sua direzione notai la sua bocca assumere una piega di disgusto.
“È solo per qualche ora. Io resisterò” disse, e si sistemò alcuni capelli dorati dietro all'orecchio. Era proprio il peggiore motel del mondo, ma lei aveva saputo cancellare tutto lo squallore in quel gesto. Mi avvicinai a quella bocca perfetta e la baciai, dopodiché lasciai cadere sul pavimento la valigetta che tenevo in mano e con un calcio la feci scivolare sotto al letto, dove mi ci coricai esausto dopo pochi secondi.
“Ho portato qualcosa per festeggiare” disse, estraendo da una tasca del soprabito una mezza bottiglia di bourbon, le strizzai l'occhio e le feci cenno di lanciarmela, la lanciò, la presi al volo e ne ingollai all'istante una generosa sorsata.
“Vado un istante in bagno, Vincent” disse, e qualche momento dopo mi si offuscò la vista, poi la luce che emanava la lampadina appesa al soffitto sembrò calare d'intensità.
“Sei una donna perfetta Elizabeth” dissi. Udii lei rispondermi dal bagno, ma non capii nessuna parola, la percezione del suono si fece ovattata e una improvvisa stanchezza mi cementò gli arti.
Una mera voragine prese il tutto.
Un intenso odore di fogna mi rubò al pesante sonno in cui ero imbattuto.
Quando rinvenni sentii la gola in fiamme e la testa dannatamente pesante. Non rammentai nell'immediato cosa mi era accaduto e nemmeno in quale luogo mi trovassi.
Guardandomi attorno realizzai di essere in una stanza del Motel Martinelli: un motel di quart'ordine sistemato sulle colline a est di Santa Taisia, rappresentato da una squallida costruzione color ratto dagli intonaci rigonfi d'umidità e d'insetti con innumerevoli zampette.
Il Motel Martinelli era noto per essere una tana per negri, tossicodipendenti, puttane a fine carriera, assassini, e chissà quale altra immondizia. Io non ero certo uno di quelli che si poteva definire un bravo cittadino, ma il fondo non lo avevo ancora toccato, non ancora almeno, e quel posto non lo meritavo.
Barcollai verso il bagno, girai la manopola del rubinetto e vi accostai le labbra, le tubature si misero a gorgogliare tra le sottili pareti e schizzi intermittenti di acqua giallognola fuoriuscirono dal rubinetto rugginoso insieme ad un esemplare di millepiedi piuttosto cresciuto. Disgustato dall'animale allontanai la bocca dal rubinetto e osservai la bestiola attraversare a grande velocità la parete, sino ad una vistosa crepa, dove vi si infilò. Avvicinai nuovamente la bocca all'idrosanitario e bevvi una misera quantità di acqua. Quel tanto che bastò ad alleviare il bruciore alla gola e sciogliere l'impasto denso di saliva che mi incollava la lingua al palato. Avrei bevuto di più, ma colore e odore di quel liquido ricordavano più il piscio che l'acqua, ed allora decisi di tenermi la sete.
Controllai nelle tasche del soprabito che portavo ancora indosso e, nella tasca interna, vi trovai un mezzo pacchetto di sigarette ed una scatola di fiammiferi. Fumai, tra qualche breve colpo di tosse.
Uscii dal bagno, cominciai a camminare nervosamente avanti e indietro per la stanza e qualche ricordo cominciò a riaffiorare. Pochi istanti dopo nacque la scintilla che diede vita alla lunga sequenza di ricordi più recenti.
Mi lanciai a terra ed osservai sotto al letto, dove, con grande sollievo, trovai la valigetta.
La aprii: al suo interno un pezzo di carta ingiallito sul quale prendeva posto una calligrafia molto famigliare: era la calligrafia di Elizabeth.
Mi dispiace Vincent,avevo l'ordine di guadagnare la tua fiducia e di usarti per la rapina da Koltzinsky.Avrei dovuto ucciderti una volta in possesso dei diamanti, ma non ne ho trovato la forza.Voglio che tu sappia che quando dissi di amarti non mentivo.
Scappa da questa città e dimentica tutto.Ti ho portato in questo motel perché è l'unico posto sicuro nelle vicinanze.Fuggi lontano e costruisciti una nuova vita, sei un bersaglio facile qui a Santa Taisia, se qualcuno ti vedesse in vita tutti e due ne pagheremmo le conseguenze. Quindi ti prego, non venire a cercarmi.Ti ho lasciato l'auto e un po' di denaro, dovrebbe essere sufficiente a farti durare i vizi per qualche settimana.Non mi odiare, ti prego, purtroppo il nostro amore è vittima di qualcosa di troppo grande per noi. Forse in un'altra vita saremo felici.Addio.
tua, Elizabeth
Per un istante, mentre scorrevo quelle righe d'inchiostro, mi sembrò di percepire il suo tipico e dolce profumo al gelsomino. Un profumo che ormai avevo imparato ad associare all'amore e alla fiducia.
Puttana.
Avevamo rapinato la gioielleria di Koltzinsky il giorno precedente io ed Elizabeth, dopo settimane passate a progettare il colpo, ed ora mi ritrovavo nella peggiore stanza d'albergo del mondo con un pugno di mosche.
I sogni di ricchezza e di amore erano andati in frantumi. L'immagine di me ed Elizabeth in riva al mare a bere drink colorati adornati con pezzi di frutta e ombrellini svanì all'improvviso, ed il pensiero di ciò mi procurò una sgradevole fitta di dolore alla testa e alla bocca dello stomaco.
Puttana.
Quella puttana era scappata con i diamanti, dopo avermi sapientemente ingannato era scappata con i diamanti. Aveva drogato il mio bourbon la sera prima e poi mi aveva lasciato sul peggiore letto del pianeta.
Mai fidarsi di una donna che ti offre da bere. Mai.
Nella valigetta, come scritto da Elizabeth, trovai un sottile fascio di banconote e un paio di chiavi: erano quelle dell'auto. Mi avvicinai alla finestra, era notte fonda, la visuale dominava il parcheggio del motel: sul quel rettangolo d'asfalto riconobbi subito la mia auto: quella ferraglia non valeva neanche una minima parte dei diamanti che Elizabeth mi aveva portato via.
Notai il mio viso riflesso al vetro della finestra rabbuiarsi. Dovevo fare qualcosa al più presto. Prima che rabbia, delusione e nostalgia mi entrassero dentro all'animo con eccessiva forza da riuscire a prendere il sopravvento su tutto il resto.
Intascai le banconote, la lettera e le chiavi. Poi notai, sul letto, incastrato tra il cuscino e il muro il mio cappello: tutto stropicciato, cercai di fargli riprendere la piega originale e me lo poggiai sulla testa. Guardai nuovamente il mio riflesso: non brillavo certo per eleganza, non era solo il cappello ad essere stropicciato infatti, ma bensì tutto il vestito, e a guardare con attenzione anche il suo contenuto aveva qualche piega di troppo. Pazienza.
Mi mancava solo una fiaschetta colma di bourbon e una revolver carica per essere al completo, purtroppo le armi usate per la rapina erano state gettate giù da un ponte a parecchi chilometri di distanza e facevano compagnia a chissà quali esemplari di pesci ora.
Pessima idea.
Uscii dalla camera, non c'era nient'altro che mi potesse tornare utile in quello squallido luogo, restare lì avrebbe voluto dire perdere altro tempo prezioso, e rendere la ricerca di Elizabeth più complessa.
Mi diressi verso la reception del motel. Attraversai il corridoio e vidi un negro completamente nudo stringere tra le mani un sassofono: barcollava e guardava dritto davanti a sé, nemmeno sembrò accorgersi della mia presenza. Guardava la parete scrostata alla fine del corridoio e le andava incontro con lentezza, come se quel rettangolo di muro fosse chissà cosa.
Gente strana, i negri.
Proseguii la marcia facendo attenzione a non prendergli contro e scesi le scale. Il vecchio alla reception sfogliava un quotidiano e leggeva un articolo strizzando gli occhi e facendo fuoriuscire dalla bocca la punta della lingua, assumendo così, una tipica espressione da subnormale. Notai, disgustato, prima gli angoli della sua bocca bianchi di saliva e poi, l'articolo in prima pagina: Gioielleria Koltzinsky rapinata con un colpo da maestro, la polizia brancola nel buio.
Sorrisi, eravamo stati in gamba io ed Elizabeth, il nostro colpo si era rivelato perfetto. La mia esperienza di rapinatore e la sua freddezza e lucidità avevano dettato le basi della rapina perfetta. Diamine! Elizabeth era una delle più sveglie e belle bambole che abbia mai avuto l'occasione d'incontrare nella vita. Questo era sicuro!
“Quanto vi devo per la stanza?” chiesi al vecchio, il quale abbassò il giornale e rispose flemmatico:
“è già tutto pagato signore, ha saldato la vostra donna questa mattina prima di andarsene, è una stranezza che non ve lo abbia riferito.” E tossì catarroso ripetute volte, senza avere nemmeno l'accortezza di coprirsi con la mano quell'orribile orifizio dalla scarsa dentatura.
“Forse non voleva disturbarmi, ho dormito fino a poco fa come un ghiro. Ero molto stanco.”
“Immagino signore, anche io mi sentirei spossato dopo una notte passata in compagnia di una donna così bella...” Disse sorridendo.
“Vi consiglio di rivolgervi al sottoscritto mostrando più discrezione!”
“Vi prego di accettare le mie scuse signore, non era mia intenzione mancarvi di rispetto...”
“Lo spero bene porco bastardo.”
Diedi le spalle al vecchio minorato senza sprecare altro fiato e uscii da quel luogo pulsante di miseria, frivolezze e sporcizia.
Raggiunsi il parcheggio, guardai il cielo: catrame. Nessuna luna, nessuna stella a farmi compagnia. Meglio, le stelle e la luna erano roba da effeminati.
Osservai l'orologio che portavo al polso, segnava le otto, ma era fermo, una lunga crepa attraversava il vetro. Chissà come diavolo avevo fatto a danneggiarlo poi... Gli diedi due colpetti con l'indice, niente, le lancette stavano immobili. Slacciai il cinturino e lanciai l'orologio con rabbia sull'asfalto facendolo dividere così in diversi frammenti.
Salii sull'auto, aprii la portiera cigolante, la quale si bloccò spalancata, dovetti tirarla a me esercitando parecchia forza per riuscire a richiuderla.
Come misi in moto un forte scoppio, simile ad uno sparo, fece uscire un nero nuvolone dal tubo di scappamento. Qualche uccellaccio si librò nell'aria gracchiando, come per protestare. Subito dopo, ci fu un altro boato, ma questa volta proveniente dal cielo, ed una fitta pioggia cominciò a tamburellare sul parabrezza e sul tettuccio dell'auto. La pioggia così all'improvviso mi sembrò una specie di messaggio di malaugurio lanciato dal Padre Eterno.
“Mantieni la dannatissima calma Vincent!” Dissi tra i denti, digrignandoli così violentemente da rischiare di danneggiarli.
Per un attimo mi assalì l'impulso di prendere a calci l'auto, di tornare dal vecchio alla reception e prenderlo a pugni sino ad aprirgli la testa come fosse un melone troppo maturo.
Mi controllai appena scoprii che almeno l'autoradio funzionava, e che la ricezione non era male.
Non sapendo con precisione da dove partire per cominciare la ricerca di Elizabeth e dei diamanti, decisi di fare un salto in un qualche posto dove potere affogare almeno un paio di pensieri sgradevoli in un buon bicchiere di bourbon, sperando di essere assistito dalla fortuna, perché era solo di quella che avevo bisogno dato che non avevo né un'arma, né una vera traccia da seguire.
Se le parole di Elizabeth erano vere, qualcuno mi avrebbe notato una volta arrivato a Santa Taisia. L'unica cosa che potevo fare era tenere gli occhi ben aperti e resistere alla voglia di sbronzarmi.

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