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Padre Pablo

Creato il 28 maggio 2011 da Faustotazzi
Padre Pablo
Il giorno dopo era domenica e andammo alla messa. Quando non sai che cosa fare non ti resta che pregare e quello ci restava per sperare di ritrovare la nostra trapezista. Così andammo a una messa cattolica cantata in Rapanui, andammo a chiedere la grazia a Padre Pio e all’Hombre Pajaro, ci andammo tutti insieme una domenica mattina mentre la pioggia batteva incessantemente tutta l'isola. E non servì a niente, salvo forse a Buffalo Bill che arricchì il suo vocabolario spagnolo con onnipotente ("todo poderoso") e cosa buona e giusta ("cosa justa y necesaria"), due locuzioni che a onor del vero nella vita di tutti i giorni gli sarebbero servite a poco.
Padre Pablo emigrò in Cile da un paesino in provincia di Brescia, lo fece trent'anni fa e partì come missionario della Compagnia di Gesù in Uruguay, dove i contadini andavano a messa solo perchè lui che aveva studiato alla Scuola Radioelettra di Torino aggiustava tutte le televisioni del paese. In Perù invece alla gente non fregava niente di niente, men che meno Gesù Cristo. Portò in processione le reliquie di Sant'Antonio da Padova per 30.000 chilometri in tutta l'Argentina e infine approdò a Coyhaique, nel cuore della Patagonia cilena, un posto dove gli uomini lavoravano come pescatori per tre giorni al mese e nei restanti ventisette si bevevano lo stipendio. A Rapanui ci veniva solo d'inverno, quando il parroco titolare tornava in continente lasciandogli la casa e il cane Arturo. Padre Pablo conosceva l'isola palmo a palmo, la percorreva tutta ogni giorno. A Hanga Roa la sua auto veniva fermata ogni due metri: "Ciao, come stai, come sta tua moglie, a casa tutto bene, tante care cose, ciao ciao ciao". Padre Pablo aveva nostalgia solo dei cotechini con la polenta.
Partimmo verso mezzogiorno, aspettando che la pioggia si facesse almeno sottile sottile, pur facendoci capire che  non aveva nessuna intenzione di smettere. Eravamo in cinque - noi due, l'Uomo Calamita, padre Pablo e il cane Arturo - su un camioncino che quando toglievi le chiavi si spegneva solo dopo dieci minuti. Ci giocammo le nostre ultime disperate risorse: un miracolo ecclesiastico, il fiuto del cane o il campo magnetico del fenomeno da baraccone. Padre Pablo ci portò in posti segreti che solo lui conosceva, nell'eraba alta tra resti perduti di antichi villaggi, nelle grotte dove i Rapanui sfuggivano ai mercanti di schiavi o lungo sentieri ripidi a picco sul mare. Alle tre del pomeriggio, mentre ascendevamo al Rano Kau il vento cessò improvvisamente, la pioggia si fece sottilissima, diritta come una tendina. In cielo tra le nuvole si aprì un breve squarcio da cui scese un piccolo raggio di sole. Davanti a noi Padre Pablo mormorava, il cane uggiolava e l'Uomo Calamita iniziò ad accusare strani malori, tanto che fummo obbligati a riportarlo all’hotel.
Ritornammo al Rano Kau solo in tre: il cane Arturo, padre Pablo ed io. Salimmo a Orongo, il villaggio cerimoniale dove in un tempo ormai perduto i Rapanui tenevano l’incoronazione dell’Uomo-Uccello, re di un'isola. Dopo essersi decimati a vicenda e una volta distrutti tutti i moai, le tribù si inventarono un nuovo gioco per risolvere più paficicamente le loro beghe di condominio. A primavera si saliva al Rano Kau da cui i giovani si gettavano nell'oceano, nuotavano fino a uno scoglio al largo e ci restavano giorno e notte fino a quando i gabbiani migratori - sterne, per la precisione - arrivavano a deporre le uova. Il primo che riusciva a riportare un ovetto fresco al suo capo tribù lo faceva diventare l’Hombre Pajaro: l'Uomo-Uccello, Re dell’Isola di Pasqua per un anno. Poi di solito il re uscente si rifiutava di abdicare e tutto si risolveva con una bella guerra come ai cari vecchi tempi dei moai.
Ritornati in hotel trovammo l'Uomo Calamita ancora in preda a mal di testa devastanti. Quella sera cenammo in tredici in un'unica tavolata e per una volta noi stavamo in mezzo. Il Direttore e il Bravo Presentatore stavano in fondo al tavolo, rabbuiati e silenziosi. Discutevamo tutti a voce bassa, a gruppetti o due a due. Mangiafuoco bisbigliava a Sonniboi, Culobasso equivocava i discorsi del Maestro Canello, Bulabula parlava fitto con l'Orangutan e i Gemelli Houdini si capivano anche senza parlare. I pagliacci facevano capannello, i giocolieri giocolavano e gli acrobati... Beh gli acrobati guardavano fissi nel vuoto davanti a loro, non gli andava di fare o dire niente senza la trapezista.
I camerieri italiani distribuirono il pane e decidemmo di aprire anche un paio di bottiglie di vino. Lo avevamo appena stappato quando arrivò Padre Pablo che ci chiese di andare con lui all'ospedale. La trapezista era là, un'infermiera india di mezza età e di un certo peso scostò le tende azzurre che nascondevano il suo letto poi tornò a occuparsi della paziente di fianco, un'italiana a cui riempì due gigantesche siringhe e attaccò una flebo piuttosto casalinga. L'autopsia avrebbe rivelato che il decesso era avvenuto alle tre del pomeriggio, e che la trapezista era incinta. Sfilammo tutti tra quelle tendine, uno dopo l'altro come in processione. Poi decidemmo che a questo punto avevamo visto tutto quello che c'era da vedere laggiù a Rapa Nui. Tornammo al ristorante, finimmo la nostra cena andammo tutti a dormire.
Il giorno dopo tutto il Circo rimase chiuso in albergo, noi uscimmo da soli con padre Pablo a esplorare altri posti segreti che non vi posso raccontare. Ci spiegò molte cose riguardo all'isola, ai suoi antichi abitanti e a quelli attuali, alla loro strana relazione con quel minuscolo pezzo di terra gettato laggiù così lontano dal mondo da chissà quale dio. Ci raccontò ancora dell'America Latina e della dura vita della povera gente. Fu una giornata malinconica, triste e bellissima. Poi mercoledì l'Uomo Calamita si sentì meglio, controllammo i dettagli dei voli, cambiammo i biglietti e ripartimmo per il continente.

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