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Creato il 02 novembre 2014 da Malvino
Immaginate d’essere ospite di un’anziana signora che vi infligge la tortura dei suoi album di foto ingiallite, e su nessuna sorvola, e per ciascuna ha una parola, anzi due, tre, quattro, perché è ciarliera oltre misura, devota assai all’uncinetto del pettegolezzo. Pesanti tende un po’ tarmate, statuette di santi e di madonne sotto campane di vetro, una lipsanoteca, un grammofono che gracchia in sottofondo, e lì, sul tavolo, il bicchierino di rosolio che vi ha offerto con un piattino in cui ci sono tre biscottini, su un centrino. Storie su storie, in cui ovviamente è al centro anche quando i fatti l’hanno sfiorata, e facce, nomi, ninnoli, manie ed idiosincrasie, e che tette aveva, quand’era giovane, e quanti giovinotti l’hanno ingroppata – increspa le labbra vizze sulle quali il rossetto s’aggruma a forma di cuoricino – e poi la carrellata di chi le ha baciato la mano (tutti gran signori) e quella di chi non le ha ceduto il post sul filobus (rozzi villani, tutti), e mammà ch’era una gran donna, e papà ch’era un gentiluomo come non ce ne sono più…
Questa, più o meno, la sensazione che si ha leggendo La virtù dell’elefante di Paolo Isotta (Marsilio, 2014), libro pletorico, tristissimo, noioso e, quel che è peggio, zuppo d’ammicchi, sospiri e improvvisi allucchi. Un chiattillo invecchiato male, si direbbe. 

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