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1/5. Politica e parole: la ‘riforma’

Creato il 24 gennaio 2013 da Angelonizza @NizzaAngelo

Inauguro questa serie di interventi sulle parole che accompagnano la campagna elettorale in vista delle elezioni politiche italiane di fine febbraio. Nulla di scientifico legato a sondaggi o a istituti di censimento linguistico, ma solamente una raccolta di osservazioni estemporanee, di schizzi sui termini che più di altri tornano nei discorsi dei candidati e dei dirigenti di partito durante le loro performance locutorie. Parole che spiccano al solo ascolto disinteressato. Neo-liberisti, ex comunisti, centristi, vaticanisti, tecnici. Hanno tutti la ‘riforma’ sulla punta della lingua. Pronunciano la parola con disinvoltura, a ogni occasione sono pronti a riprodurla e a inserirla dentro il dibattito.

Il premier da battere

Il premier da battere (da Matrix)

Ri-forma, cioè formare di nuovo, da capo, qualche cosa che una forma ce l’ha già e che, evidentemente, così com’è non va bene. Ri-formare, un po’ come ‘rivoluzione’, nella misura in cui la paroletta significa riportare le cose a posto, per come erano all’inizio, così come il moto di rivoluzione della terra è quello che ricolloca il pianeta nella posizione di partenza dopo aver descritto un moto completo intorno al sole. Ma, attenzione, perché il linguaggio inganna. E se da un lato, ‘riforma’ ha un che di rivoluzionario, perlomeno nei confronti del profilo dello stato di cose da riformare, la tradizione politica in cui mette radici è divenuta via via anti-rivoluzionaria. Storicamente i riformisti sono i socialisti che non accettano le tesi marxiste (non marxiane), seguite, invece, dai comunisti che nel 1921 prendono le distanze dal partito che fu di Turati.

Leader, Filippo Turati

Leader, Filippo Turati

Riformista è, dunque, colui che fa i conti col capitalismo provando a regolarlo, a ricalibrarlo in senso egalitario, equo e solidale, a suon di riforme, appunto. Oggi, dire ‘riforma’ significa programma politico tout court. L’agenda di governo è fin da subito un’agenda di riforme. Ed è così per qualsivoglia governo, di qualsivoglia colore. L’aspetto decisivo, e magari anche curioso, non è tanto la paternità diffusa del riformismo contemporaneo, ma piuttosto l’astrazione semantica della parola. Vale a dire: ‘riforma’ non ha un significato concreto. Che non sta affatto per l’assenza di un senso. ‘Riforma’ è un termine sensato, così come ‘Babbo Natale’, anche se entrambi mancano di un referente in carne ed ossa. Insomma, non importa che cosa riformare, basta che si dica ‘riforma’, ‘riformiamo’, ‘siamo la politica delle riforme’. Detto altrimenti, il destino della ‘riforma’ all’interno dei discorsi dell’odierna classe dirigente rischia di essere quello di un segno linguistico vuotato di significati apprezzabili. Paradigma di costrutti ciarlieri, caratterizzati dalla non corrispondenza fra parole e cose. Heidegger la chiamava “chiacchiera”, che è un termine tecnico per indicare l’insieme dei detti quotidiani che contribuiscono a fortificare l’habitat in cui si vive, favoriscono la familiarità con l’ambiente contro gli choc e le angosce del mondo, difendendo lo status quo. Senza riformarlo.



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