Magazine Horror
Una voce per il Walhalladi Chiara Brazzale Creatura: Valchirie
Non riusciva a respirare.Sembrava quasi che l’aria si fosse tramutata in acqua,talmente era densa.Correva e correva, non poteva fare altro, il nero dietro e davanti, il vuoto ovunque, sotto i piedi uno specchio nero che rimandava la sua immagine speculare.Se si fosse fermato, l’avrebbe preso, se si fosse voltato indietro, non avrebbe più rivisto la luce delsole, anzi, non avrebbe più potuto aprire gli occhi.Così, il fiato che non voleva saperne di rallentare, il cuore al limite e le gambe pesanti come il piombo, continuava a correre verso il nulla e scappando da qualcosa che forse nemmeno esisteva, ma della quale sentiva il fiato sul collo come la vittima sente la presenza del proprio carnefice.Continuava a ripetersi: “Corri, corri e non voltarti…”.
Jared si sentì soffocare, annegava nell’incubo che da mesi lo perseguitava e, proprio come un naufrago sommerso da un’onda improvvisa, scattò a sedere e respirò a pieni polmoni l’aria dolce insuperficie.Il torace che si abbassava e si alzava a ritmo da record, l’uomo si guardò attorno, lo sguardo terrorizzato di chi si sente in trappola e cerca disperatamente una via d’uscita.Tremava in modo incontrollato, era sempre così quando si risvegliava dai suoi incubi, o meglio, da quel suo unico incubo che aveva senso unicamente dentro la sua mente.Seduto tra le morbide lenzuola del letto king-size della sua suite, si abbracciò le ginocchia e cercò di calmare i tremiti mentre, pian piano, iniziava a riconoscere ciò che lo circondava.La scrivania in vetro cosparsa di plichi di fogli scritti, il pavimento un intrico dei suoi vestiti, la sua adorata chitarra elettrica sulla poltroncina imbottita dell’angolo…Dopo quella che gli parve un’eternità passata a osservare il lusso pervaso del suo disordine così familiare e confortante, riuscì a calmarsi abbastanza per alzarsi dal letto e, un po’ meno tremante di prima, aprire le tende per rivelare una magnifica vista dall’alto di Central Park. La luce dell’alba colorava ogni cosa di una rassicurante tonalità di rosa e oro, compresi i passanti sempre di corsa anche a quell’ora del mattino.Jared appoggiò la fronte contro il freddo vetro della finestra e sospirò, scacciando le nere grinfie dell’incubo che ancora non lo volevano mollare anche da sveglio.Nonostante la suite fosse una delle più grandi dell’intera New York, sentiva l’ennesimo attacco di claustrofobia pizzicargli le braccia.Luce, aveva bisogno di molta luce e aria.Però, prima d’uscire, aveva un assoluto bisogno d’una doccia. Era talmente sudato che la maglia gli si era incollata alla schiena come se avesse realmente passato le ultime ore a correre a perdifiato. Ed era ugualmente stanco.Sotto l’acqua della doccia, -gelida, ovviamente, se voleva svegliarsi del tutto- ripensò a quella che sarebbe stata la sua giornata per scacciare definitivamente i rimasugli dell’incubo, se solo avesse avuto voglia di passare l’intero giorno su un palco.No, non era dell’umore giusto per presentarsi alle prove, non avrebbe combinato un granché se non sfinirsi prima del concerto di quella sera. Suo fratello, - il bassista del gruppo di cui Jared era cantante, leader e front-man-, lo avrebbe probabilmente tramortito a forza di urlargli contro per via telefonica.Con quel pensiero in testa, uscì dalla doccia, si vestì dopo essersi asciugato e spense il cellulare per precauzione.Prima però lasciò un messaggio all’altro membro della band, il più calmo e razionale, un batterista eccezionale. “Non vi preoccupate, ho bisogno di staccare per un giorno. Datemi dodici ore. Ci si vede al concerto”, questo fu il messaggio enigmatico che inviò.Dopodiché, occhiali da sole enormi e cappellino a celargli il volto per non essere riconosciuto, uscì dalla propria suite nell’attico per una buona dose d’aria fresca e di luce.Chiudendo la porta della camera intravide una deliziosa colazione con tanto di caffè nero e brioche, proprio come piaceva a lui, posata sul tavolino.Si sentì leggermente in colpa a ignorare la colazione che qualche bravo dipendente dell’hotel aveva preparato per lui, ma aveva lo stomaco chiuso e decisamene non sarebbe stato in grado di apprezzare la gentilezza.Così uscì, smanioso di ritrovarsi all’aria aperta.
“Maledizione!”, pensò spiando dall’enorme finestra della suite di quell’uomo. Era uscito senza degnare d’uno sguardo il caffè drogato che gli aveva lasciato sul tavolino. “Perché diamine fatico tanto ad ammazzarlo?” Esasperata, attese che l’affascinante trentenne uscisse dall’hotel per poi seguirlo a debita distanza.Da circa due mesi tentava di porre fine alla vita di quel famoso cantantedagli occhi azzurri come il ghiaccio e, da due mesi, continuava a veder fallire miseramente ogni suo singolo tentativo.Per quanto lei s’impegnasse, tentando anche metodi vili come quello di quel giorno (avvelenargli il caffè!, che trucco ignobile), nulla, NULLA, aveva funzionato.L’uomo riusciva sempre a cavarsela, evitando a regola d’arte ogni sua singola trappola. “Come se ne fosse consapevole!”.Nessun mortale sarebbe stato in grado di vederla, ma, alla pari, nessun umano sarebbe dovuto sfuggirle, eppure…“Basta”, pensò al limite della sopportazione. “I piani alti dovranno concedermi la possibilità di intervenire direttamente, questa volta, sono stanca di essere lo zimbello delle mie compagne!”.Sì, era stanca della derisione che leggeva nello sguardo che le rivolgevano le altre Valchirie da due mesi oramai.Il compito doveva essere uno tra i più semplici: condurre lo spirito di quell’uomo dalla voce angelica al cospetto degli Dei nel Walhalla,attraverso una delle cinquecento quaranta porte che lo collegavano al mondo mortale.L’aveva considerato un insulto alla sua professionalità di Valchiria quando le era stato impartito quell’ordine su diretta volontà d’Odino, il Re degli Dei nordici, il quale, molto impressionato dalla voce di quel mortale, lo aveva richiesto nelle sue schiere di spiriti. Eroi, guerrieri valorosi e strateghi machiavellici facevano parte di quella schiera che, per un decimo, lei stessa aveva composto, scendendo sulla Terra e reclutando personaggi illustri per l’esercito del suo capo.Eroi, non banali cantanti, per quanto la voce dell’uomo fosse qualcosa di veramente straordinario, persino per una divinità.Ecco perché era vergognoso che non fosse ancora riuscita a strapparlo via de quel bel corpo mortale. Avrebbe agito appena avesse ottenuto il consenso del suo capo-legione. Anche senza, se questo voleva dire portare a termine il lavoro una volta per tutte.Sorrise mentre, silenziosamente, seguiva d’appresso l’uomo che non voleva decidersi a tirare le cuoia nonostante il gong della sua fine fosse stato suonato da parecchio tempo.“Il tuo tempo è contato, bel mortale”.
L’intera mattinata passò velocemente, senza nessun intoppo.Passeggiò per Central Park, s’incantòa guardare gli animali allo zoo e assistette a un piccolo spettacolo organizzato in una delle tante piazzette del parco.Matita alla mano, schizzò una coppia di ballerini in un block-notes che si portava sempre appresso. Disegni, pensieri, stralci di canzoni… tutto veniva impresso in forma embrionale sulla carta. Aveva il timore che, se non avesse fissato quei momenti e quelle idee da qualche parte, si sarebbero perse nel mare di ricordi che affollava la sua mente. E, via via che l’inchiostro riempiva le pagine, riempiva pure quella parte recondita della sua mente che era la memoria d’un elefante.Sì, gli serviva imprimere tutto sia su carta che sulla memoria.Proprio per questo, anche quando il gong che segnava la fine della sua fortunata vita emetteva l’ultimo dei rintocchi che risuonavano ormai da mesi nella testa di Jared, perfino quando la morte gli offrì un caffè sorridendo vittoriosa, l’unica cosa che fu in grado di fare fu mettere nero su bianco quella creatura ultraterrena.
Apparve così, uno sfarfallio nero pece al limitare del suo campo visivo.Jared si era appena seduto a uno dei tanti tavolini di metallo lucente disseminati di fronte alla caffetteria che aveva scelto per sostituire la colazione abbandonata su quel tavolino d’hotel,quando la vide.Un angelo –o un demone. Come potevano tanta bellezza e crudeltà coesistere in un solo essere e meritarsi l’uno o l’altro nome?-, una creatura che non apparteneva certamente al mondo dei mortali, lo guardava con occhi penetranti dall’alto del lampione su cui era appollaiata.Nere erano le sue iridi, indistinte dalla pupilla, come anche le sue ali, ali grandi quanto ante d’una porta, ripiegate con cura,similia ventagli.Il piumaggio era identico a quello dei corvi, -piume nere con sfumature similia quelle del petrolio esposto al sole, verdi e violacee-, rivestivano una possente muscolatura innestata su ossa affilatee snelle come giunchi.La pelle, invece, era una distesa nivea e compatta che si stirava sopra zigomi affilatie mento sfuggente. Jared si rese conto d’esser diventato di pietra,ma nulla avrebbe potuto risvegliarlo da quel suo incubo a occhi aperti.La creatura scese dal lampione con movimenti invidiabili perfino da una pantera e si diresse verso di lui, il sole che le illuminava il bel volto come la carezza protettiva di un’amante e che faceva brillare l’acciaio delle lame sulla sua schiena.Bella.Bella e terribilmente crudele nell’espressione determinata sul suo bel volto, gli occhi che rilucevano come perle nella neve della sua pelle.Nessuno la vedeva, ma cosa importava? Lui la vedeva chiaramente, non pensò nemmeno per un secondo d’esser definitivamente impazzito per la pressione psicologica degli incubi.Forse, proprio quegliincubi, tutto quel correre e svegliarsi un attimo prima di soffocare, gli permisero di rimanere al suo posto, con il cuore che batteva in modo regolare, e osservare quell’angelo della morte giunto fin lì solo per lui.-Posso sedermi?-, gli chiese la creatura con un sorriso, accennando all’altra unica sedia disponibile al suo stesso tavolino.Voce soave come il sussurro del vento, piena e allo stesso tempo eterea.Lui annuì e subito tirò fuori dalla tasca una penna, aprì il blocco da disegno e iniziò a schizzare il profilo bello e crudelmente affilato della creatura che lo osservava incuriosita.-Che cosa fai?-, chiese lei, poggiando i gomiti sul tavolino.Jared corresse lo schizzo con scatti del polso e delle dita: lungo il profilo del suo esile avambraccio correva una fila di piume nere intrecciate con monili d’argento.-Ti ritraggo-, rispose, conciso. Senza alzare lo sguardo, chiese: -E tu?-.-Ti offro un caffè-, rispose lei e, con un sorriso ammiccante, aggiunse: -Nero e senza zucchero, giusto?-.Jared non si fece distrarre nemmeno da quel commento. La creatura, - sembrava che nessuno la vedesse se non quando e come lei lo volesse-, ordinò un caffè e un cornetto alla marmellata ai frutti di bosco.Quando l’ordinazione arrivò,Jared aveva già completato tre piccoli schizzi: uno del suo bel volto di profilo, un altro del suo corpo alato –aveva aggiunto anche un paio di corna nere e lucide che, come lame gemelle, s’incurvavano all’indietro sparendo nella sua chioma di capelli corvini-, e l’ultimo, lei che lo guardava con un’espressione compiaciuta.Abbandonò la penna, accantonò gli schizzi e sorseggiò il caffè, l’ultimo e, a quanto gli sembrava, il più buono della sua vita.-Sei venuta per me-.Non era una domanda.-Sono venuta per la tua voce-, rettificò lei, divorando la brioche con denti aguzzi da felino.-Prendila, è tua se la vuoi-.-E per la tua anima-, aggiunse con un sorriso compiaciuto. Lui tacque. Finì il caffè, lei la brioche.-La mia voce, la mia anima… qualcos’altro?-.-Un ritratto magari?-, chiese speranzosa lei, ammirando al contrario gli abili schizzi del blocco disegni che c’era tra di loro sul tavolino.Lui annuì,un sorriso quasi infantile sul volto.-Mi piace come sta finendo la mia vita-, disse nell’impugnare nuovamente la penna. -Proprio facendo ciò che più mi piace: mettere nero su bianco qualcosa che solo io riesco a vedere-.
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