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19. Quella che muore

Creato il 01 ottobre 2011 da Fabry2010
19. Quella che muore

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Era il periodo in cui nacque il movimento.
Viviamo la nostra fede in maniera schizofrenica.
Si raccomandava di guardare al mondo, di uscire dai recinti delle sacrestie.
In chiesa diciamo il padrenostro, ma fuori viviamo l’opposto.
Di raggiungere le sacche più lontane, dimenticate o evitate, essere lievito nella pasta del mondo, anche nelle condizioni più difficili, anzi, soprattutto in quelle.
Che ci piaccia o meno, dobbiamo scegliere tra vivere nella realtà o nell’irrealtà.
Il prete avrebbe dovuto essere uno come gli altri, provare le stesse sofferenze, affrontare gli ostacoli senza sconti o privilegi.
Secondo Gesù, bisogna stare nella realtà più reale, che in linguaggio teologico si chiama la sarks, la carne.
Perché le barriere più alte dividono coloro che lottano per i medesimi valori, per gli stessi cambiamenti della storia.
E in linguaggio storico sono le maggioranze povere di questo mondo.
Come fa una vittima predestinata della società, la rotella di un ingranaggio spaventoso a capire cosa sia la chiesa?
A ciò si contrappone il vivere nelle isole di abbondanza del primo mondo.
Se la chiesa non accetta di farsi rotella dell’ingranaggio anch’essa, di sperimentare cosa sia lo sfruttamento, come può parlare a questa gente?
Cioè il docetismo, la più antica eresia del cristianesimo.
E da dove sarebbero piovuti gli anatemi, le critiche e gli attacchi? Naturalmente dai preti.
Il rifiuto del corpo, il vivere nell’apparenza, nell’irrealtà, significa vivere nell’arroganza, che è ciò che avviene quando il primo mondo proclama a parole, o peggio, dandolo per scontato, il reale siamo noi.
Perché gli altri preti stendono i programmi a tavolino, al riparo di soffitti dorati e seduti su poltrone in pelle.
In questo modo non può esistere una famiglia umana, ma solamente una specie in cui gli umani si relazionano tra loro darwinisticamente.
Ma ci sono posti nei quali non basta il tavolino, dove i soffitti dorati sprigionano bagliori sinistri, in cui potresti riconoscere le fiamme dell’inferno.
Seguire Gesù è un’altra cosa, comincia con l’essere reali, in questo mondo, con l’abbassarsi al mondo reale, quello degli affamati, delle vittime.
C’è una battaglia da combattere, e nessuno sa chi vincerà, perché le battaglie vere non si vincono con l’anello al dito e le gambe sotto il tavolo.
I nostri fratelli non sono gente in via di diventare umani, per usare la stessa formula eufemistica e macabra di paesi in via di sviluppo.
Perché la guerra si vince sul campo, rischiando la vita, dicendo sì a una missione impossibile per tutti, tranne che per Dio.
Dobbiamo scegliere tra la compassione e l’indifferenza, la giustizia e l’oppressione.
Perché a volte la vittoria è il tempo perduto, il sangue sparso sul terreno, l’ultimo respiro raccolto dal fratello che conosceva solo l’odio e il disprezzo, che non aveva mai visto in faccia la chiesa del Cristo, quella che muore sulla croce.



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