Anno: 1960
Durata: 96′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Giappone
Regia: Kaneto Shindo
Inaugurata all’Istituto Giapponese di Cultura, la seconda edizione di Nihon Eiga ha focalizzato l’attenzione sul venticinquennio post-bellico, entrando subito nel vivo dei mutamenti socio-culturali dell’epoca con Una tragedia giapponese (1953) di Keisuke Kinoshita.
Altre 15 splendide pellicole sono poi state proiettate alla Sala Trevi, incluso uno dei ben 547 film realizzati nell’anno 1960 da un’industria cinematografica nipponica all’apice della propria produzione: L’isola nuda di Kaneto Shindo. Come scrive Roberto Silvestri nella prefazione del volume curato da Enrico Azzano e Raffaele Meale, Storia del Cinema Giapponese dal 1945 al 1969, L’isola nuda è “il più grande successo internazionale di quegli anni per quanto riguarda il cinema autonomo dalle majors”, realizzato seguendo modi di produzione indipendenti e fuori schema. Non parlato, ma impreziosito da una colonna sonora in cui le voci della natura si fondono con le note musicali, il lungometraggio in bianco e nero scandisce, stagione per stagione, l’esistenza quotidiana al limite di un uomo e una donna che abitano su un isolotto impervio, insieme ai due figlioletti.
Il tema della sopravvivenza ricorre in molti film di Shindo, nato nel 1912 da una famiglia di agricoltori di Hiroshima e sopravvissuto alla bomba atomica. Dopo aver esordito alla regia con Storia di una moglie amata (1951), dedicato alla consorte prematuramente scomparsa, Shindo, influenzato dal cinema del suo mentore Kenji Mizoguchi, si colloca fra gli autori che esprimono “forte empatia nei confronti del genere femminile e di altri ruoli ugualmente marginalizzati, sottoposti a crudeli vessazioni e sofferenze, all’interno di una società tradizionale duramente criticata per la sua natura arcaica, chiusa, fondamentalmente autoritaria”, come scrive Stefano Coccia, autore di alcuni saggi del succitato volume e animatore, insieme a Oscar Cosulich e a Luca Della Casa, della tavola rotonda conclusiva della rassegna.
La protagonista femminile de L’isola nuda, interpretata dalla seconda moglie e musa ispiratrice del regista (Nobuko Otowa), compensa l’assoluta mancanza di tenerezza coniugale con un legame carnale fra lei e la natura: spingere il remo dell’imbarcazione nell’acqua, lavarsi il corpo sotto le stelle, abbracciare la terra nel momento del bisogno diventano atti di estrema e disperata sensualità. L’uomo calcola e organizza l’esistenza razionalmente, nell’illusione di avere tutto sotto controllo, ma la vita e la morte a volte sono imprevedibili e possono portar via ciò che si ha di più caro. Purtroppo, l’isolamento dai propri simili non può che peggiorare le cose.
“Privo del tutto di istanze nichilistiche, il cinema di Shindo ha continuato, anche in questi ultimi anni della sua lunga e invidiabile carriera, ad indagare l’uomo e la sua natura, con inappuntabile eleganza, lasciandosi andare talvolta ad una velata malinconia, ma senza dimenticare di esprimere la sua condanna nei confronti della guerra e di ogni posticcio e disumanizzante costrutto sociale. Caratteristiche che fanno di questo autore centenario il primo dei dissidenti, l’ultimo degli idealisti” (Daria Pomponio).
Lucilla Colonna