di Daniel Angelucci
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A distanza di dieci anni dalla formale adozione da parte del Consiglio europeo di Salonicco della Strategia dell’Unione Europea contro la proliferazione delle Armi di Distruzione di Massa (2003), i tempi sono più che maturi per tracciare un bilancio circa l’implementazione e l’efficacia di tale strategia. Una triade di fattori dirompenti sulla scena internazionale avevano allora stimolato l’atto creativo in seno all’apparato politico europeo: il clima di terrore postumo agli attentati alle Twin Towers dell’11 settembre 2001; la soffiata di un gruppo di opposizione iraniano circa le attività nucleari illecite del regime di Teheran (2002), ed infine, la crisi in Iraq, derivante dalla presunzione dello sviluppo clandestino da parte del regime di Saddam Hussein di un programma di Armi di Distruzione di Massa e il conseguente intervento militare degli Stati Uniti (2003). Col verificarsi di questi eventi, è emerso con chiarezza nelle coscienze dei leader politici europei la necessità di aggregare consenso sulle più pressanti questioni di sicurezza, fra cui la tematica della lotta alla diffusione delle Armi di Distruzione di Massa (ADM). Benché non siano mancate voci contrarie e qualche ombra, possiamo anticipare che molti sono stati i giudizi positivi in favore della Strategia UE contro le ADM, tanto che ad oggi siamo davanti ad un attore credibile sulla scena internazionale che s’è battuto con discreto successo contro il fenomeno della proliferazione.
Ad essere precisi, si deve guardare alla Strategia come ad un punto di svolta per la politica di Paesi portatori di interessi spesso contrastanti, ma anche come coronamento (e potenziamento) di quasi venti anni di politiche informali. La storia delle politiche di contro–proliferazione dell’Europa Unita dimostrano quanto difficile sia stato negli anni ottanta e novanta del secolo scorso fare anche dei timidi passi verso qualcosa che si potesse vagamente definire “politica”. Basta pensare che, quando gli Stati della Comunità Economica Europea fondarono il primo “working group” sulle questioni della non–proliferazione, persino l’esistenza del gruppo era tenuta segreta. Come si è detto, dunque, furono necessarie le scosse dell’11 settembre 2001 e della Guerra in Iraq (2003) per dare luogo alla formulazione di una strategia a tutto campo nel settore delle ADM che andasse ben oltre la mera adesione alle regole e misure di salvaguardia della Comunità Europea per l’Energia Atomica (Euratom), nonché la partecipazione della Commissione Europea nel re–indirizzamento degli scienziati della ex Unione Sovietica.
In prima battuta, la Strategia in esame definisce la proliferazione delle ADM (e dei relativi vettori quali i missili balistici) una “minaccia crescente per la pace e per la sicurezza internazionale” nonché per gli interessi della stessa Unione Europea in tutto il mondo. S’identificano inoltre i responsabili del fenomeno di proliferazione come quelli Stati che si adoperano per l’acquisizione di armi non convenzionali e si riconosce una diversa e grave dimensione del problema dato dai gruppi terroristici che tentano di acquisire materiali chimici, biologici, nucleari, radiologici e fissili.
Per l’UE abbracciare la questione proliferazione significa porre la medesima al centro dell’azione esterna europea. Fatte queste premesse, dunque, l’obiettivo principale è quello di “prevenire, dissuadere, bloccare e, se possibile eliminare i programmi di proliferazione che preoccupano il mondo intero”.
A questa parte iniziale del documento segue una valutazione di impatto dei vari settori in cui si divide la materia delle armi di distruzione di massa e il vaglio di alcuni degli strumenti utilizzati per combattere la proliferazione (Capitolo I). Ad esempio, nel campo delle armi nucleari si riconosce il contributo dato dal Trattato di Non–Proliferazione nucleare (TNP) al rallentamento della diffusione delle capacità in campo nucleare militare e si rammentano i difetti di applicazione del Trattato (potenze nucleari non aderenti e Stati aderenti che pongono in essere delle violazioni). Per quanto qui ci interessa, il Capitolo II introduce alcuni degli elementi essenziali del modus operandi dell’Unione Europea nella lotta contro le ADM:
- Approccio multilaterale alla sicurezza, compresi non–proliferazione e disarmo nucleare attraverso un impegno concreto al rafforzamento degli accordi e trattati multilaterali, sempre nell’ottica del mantenimento dell’ordine internazionale;
- Integrazione della non–proliferazione in tutte le politiche globali dell’Unione Europea;
- Impegno rigoroso nei controlli alle esportazioni coordinati a livello nazionale e internazionale;
- Impegno a cooperare con gli Stati Uniti e con gli altri partner che condividono gli obiettivi UE.
Secondo la Strategia, la prima linea di difesa contro la proliferazione è rappresentata dalla diplomazia e dal ricorso alle competenti organizzazioni internazionali. Qualora tali misure dovessero fallire si potrebbero prendere misure coercitive a norma del Capo VII della Carta delle Nazioni Unite e in base al diritto internazionale (sanzioni selettive, intercettazione di spedizioni e se del caso, uso della forza).
La pietra angolare della strategia europea nella lotta contro la proliferazione delle ADM è quella del “multilateralismo efficace”. La politica della UE è quella di perseguire l’attuazione e la diffusione universale delle attuali norme in materia di disarmo e di non – proliferazione e quindi:
- Diffusione universale del TNP, degli accordi di salvaguardia della Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) e dei relativi protocolli addizionali;
- Diffusione universale della Chemical Weapons Convention (CWC), della Biological Toxin Weapons Convention (BTWC) e rapida entrata in vigore del Comprehensive Test Ban Treaty (CTBT);
- Rafforzamento dell’adempimento del regime dei trattati multilaterali con conseguente accrescimento della tracciabilità delle violazioni e relativa criminalizzazione delle stesse sotto la giurisdizione degli Stati e, in seconda istanza, presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite;
- Rafforzamento degli strumenti di verifica; ricorso ad ispezioni straordinarie delle infrastrutture (anche di quelle non dichiarate) e rafforzamento da parte della UE, delle agenzie incaricate delle verifiche sotto i profili politico, finanziario e tecnico.
Ulteriore pilastro della politica di non–proliferazione formulata nel 2003 è dato dalla necessità di promuovere un “ambiente internazionale e regionale stabile”. La convinzione alla base di questo obiettivo è che, se Paesi sono circondati da un ambiente pacifico questi non sentiranno il bisogno di sviluppare ADM. A tal fine la UE incoraggerà accordi regionali di sicurezza e processi regionali di disarmo e si incentiverà la rinuncia degli Stati all’utilizzo di impianti e tecnologie che possano comportare alti rischi di proliferazione.
Un interessante strumento utile a risolvere problemi, paure ed ambizioni nelle regioni più a rischio di proliferazione è l’espediente delle assicurazioni in materia di sicurezza elargite in favore di taluni Stati: esse possono servire sia come incentivo (a rinunciare all’acquisizione di ADM) sia come deterrente.
Benché la proliferazione delle ADM venga definita come minaccia globale, si precisa che la sicurezza europea è strettamente legata alla stabilità del Mediterraneo, per cui particolare attenzione verrà dedicata alla proliferazione nell’area mediterranea.
A chiusura del II Capitolo viene introdotto il principio per cui “la stretta cooperazione con partner importanti” è cruciale per il successo della lotta globale contro la proliferazione. Tale principio si sostanzia, tra gli altri, nei seguenti punti:
- Esemplificazione dei partner importanti: USA, Federazione russa, Canada e Giappone;
- Un’adeguata cooperazione con le Nazioni Unite e le altre organizzazioni internazionali contribuirà ad assicurare il successo della lotta globale contro la proliferazione.
Il Capitolo III si apre con l’enunciazione del principio di pluralità degli strumenti da utilizzare per reprimere i programmi di proliferazione che causano preoccupazione a livello globale e con il passaggio in rassegna di tali strumenti:
- Trattati multilaterali e meccanismi di verifica;
- Programmi cooperativi di riduzione delle minacce;
- Leve politiche ed economiche (comprese la politica commerciale e quella per lo sviluppo);
- Divieto di attività illegali di approvvigionamento;
- Misure coercitive in conformità alla Carta delle Nazioni Unite.
Per quanto concerne l’attuazione della Strategia, l’UE è incline a concentrarsi su quello che definisce un “piano di azione vivente” incardinato su una serie di strumenti e metodologie tra cui figurano:
- il rafforzamento del multilateralismo per renderlo più efficace: rafforzamento dei trattati, accordi e mezzi di verifica, promozione del ruolo del Consiglio di Sicurezza ONU, rafforzamento politico tecnico e finanziario dei regimi di verifica, controllo delle esportazioni assicurando che l’esportazione di prodotti nucleari sia subordinata alla ratifica e applicazione del Protocollo Aggiuntivo, promozione della sicurezza dei materiali, attrezzature e conoscenze specialistiche sensibili dal punto di vista della proliferazione e, infine, adozione di politiche comuni in materia di sanzioni penali per l’esportazione illegale di materiale connesso con le ADM;
- Promozione di un ambiente internazionale e regionale stabile: rafforzamento dei programmi di cooperazione tra UE e altri paesi per la riduzione delle minacce;
- Cooperare strettamente con gli Stati Uniti e altri partner importanti;
- Sviluppare le strutture necessarie nell’ambito dell’Unione.
L’attuazione di tale piano è soggetta ad un monitoraggio costante ed è oggetto di verifiche periodiche e aggiornamenti a cadenza semestrale che prendono la forma di report liberamente consultabili sul sito del Servizio Europeo per l’Azione Esterna.
Gli sforzi dell’Unione Europea in materia di contro–proliferazione delle ADM: l’implementazione della Strategia varata nel 2003
a) I processi all’interno dell’Unione: esportazioni, istituzioni e materiali sensibili
La più ampia trasformazione nell’ambito dell’UE, dai tempi dell’elaborazione della Strategia sulle ADM, è stato l’allargamento dell’Unione stessa da quindici Stati membri nel 2003 a 27 nel 2007. La prima sfida posta da tale allargamento fu quella dei rischi di proliferazione nell’area delle esportazioni. Infatti molti Paesi entranti nell’Unione erano carenti di adeguati controlli alle esportazioni ed erano fuori da importanti regimi di controllo (The Australia Group, The Wassenaar Arrangement on Export Controls, The Missile Technology Control Regime). Il potenziale rischio di proliferazione derivava dalla libera circolazione nel mercato unico di moltissimi beni ad uso duale (industria civile–militare). La risposta data dalle Istituzioni comunitarie è stata quella di una revisione del regime per il controllo degli articoli ad uso duale intervenuta tra il 2004 e il 2009 e culminata con una regolamentazione che introdusse controlli sulle attività d’intermediazione, provvedendo altresì ad aggiornare la lista degli articoli sottoposti a controllo.
L’UE ha inoltre deciso di sviluppare strutture all’interno dell’UE per monitorare e attuare la strategia ADM. Già l’allora Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Javier Solana, aveva designato un rappresentate per la non–proliferazione delle ADM nell’ottobre del 2003. Con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, si aboliva la configurazione istituzionale per pilastri dell’Unione, si creavano nuove strutture, si ampliava il mandato della Commissione per finanziare ed implementare progetti esterni e si dava maggiore potere al Parlamento nella co–decisione su importanti aspetti delle politiche di controproliferazione. Attualmente, il principale Consigliere e inviato speciale di Catherine Ashton per la non–proliferazione e il disarmo è il polacco Jacek Bylica (già a capo del Weapons of Mass Destruction Non-proliferation Centre presso la NATO).
Come parte dei suoi sforzi per ridurre la vulnerabilità delle infrastrutture critiche, l’Unione Europea ha concentrato la sua attenzione ai pericoli potenziali derivanti dai materiali chimici, biologici, radiologici e nucleari (CBRN).
Per via degli atti di terrorismo in Madrid (2004) si ebbe una revisione delle politiche di contro–terrorismo ed uno degli obiettivi al tempo precisati fu quello di migliorare la capacità dell’UE (e dei suoi Stati membri) si dare risposte agli attacchi terroristici. La strategia per combattere il terrorismo definì quattro pilastri di azione:
- Prevenzione del terrorismo;
- Protezione delle infrastrutture critiche;
- Il perseguimento dei terroristi;
- In caso di fallimento delle prime tre misure, dare una risposta efficace a qualsiasi atto di terrorismo.
b) Il supporto finanziario agli strumenti multilaterali
Per onorare l’impegno di supporto “politico, finanziario e tecnico” verso i regimi di verifica nell’ottica di rendere il multilateralismo maggiormente efficace, il Consiglio ha adottato, tra il 2003 e il 2012, ben 22 decisioni apportando complessivamente ben 60.6 milioni di euro.
Coerentemente con gli obiettivi definiti nel piano di azione vivente (di cui sopra), le decisioni del Consiglio sono state indirizzate alla “universalizzazione” dei principali trattati nel campo del controllo degli armamenti (il TNP, la BTWC, la CWC ed il CTBT) migliorando, inoltre, i loro meccanismi di funzionamento e la loro implementazione a livello dei singoli Stati. La maggior parte dei finanziamenti sono stati convogliati verso l’AIEA, in particolare verso il fondo per la sicurezza (totale finanziamenti AIEA: 33.7 milioni di euro). Ė interessante notare come tra i progetti finanziati figurino il c.d. Hague Code of Conduct against Ballistic Missile Proliferation e il c.d. International Code of Conduct for Outer Space Activities. Le attività finanziate attraverso questi progetti variano sostanzialmente e vanno dalla organizzazione di workshops all’espletamento di attività altamente tecniche per migliorare le capacità di individuazione di test di armi nucleari. Tutte le attività hanno in comune il fatto di basarsi su modelli di cooperazione volontaria tra diversi attori e con l’utilizzo in misura maggiore dell’expertise esistente presso organizzazioni internazionali e, i misura assai minore, con l’apporto di ONG nella fase di implementazione.
c) Cooperazione bilaterale, regionale e programmi di assistenza
Nel 2002 la Commissione europea ha impegnato un miliardo di euro (da distribuire in un arco temporale di dieci anni) a favore della G8 Global Partnership against the Spread of Weapons and Materials of Mass Destruction (G8GP). Il programma del G8, che è stato esteso a tempo indeterminato nel 2011, è imperniato nei programmi dell’ex Unione Sovietica finalizzati alla messa in sicurezza dei materiali radiologici e nucleari, alla distruzione delle armi chimiche, allo smantellamento dei sottomarini a vocazione nucleare e ad assicurare che gli scienziati ed ingegneri del vasto complesso militare industriale sovietico non siano attratti da programmi illegali di ADM.
La Strategia contro le ADM ha ampliato l’impegno in termini di assistenza bilaterale. Al fine di affrontare e limitare il rischio di proliferazione derivante da carenze dell’organizzazione amministrativa o istituzionale di alcuni Paesi, l’UE sta incoraggiando questi stessi alla partnership nella lotta contro la proliferazione, offrendo un programma volto a aiutarli a migliorare le loro procedure, compresa la promulgazione e applicazione della legislazione di tipo penale.
d) L’utilizzo della leva politica e delle sanzioni
Il Consiglio ha adottato una “clausola ADM” al fine di integrare la non proliferazione nell’ambito delle più ampie relazioni dell’UE con i Paesi terzi. L’obiettivo è quello di includere in tutti gli accordi tra l’UE e un Paese terzo l’impegno giuridicamente vincolante da parte del secondo per la non proliferazione multilaterale. L’UE ha sottolineato l’importanza della clausola sia nella sua Strategia del 2003 che nelle nuove linee di azione adottate nel 2008. La clausola è progettata per indurre un migliore comportamento dei Paesi partner nei confronti di una data questione (in questo caso la non–proliferazione).
Detto con le parole della ex Responsabile in materia di non proliferazione delle armi di distruzione di massa dell’Unione Europea, Dott.ssa Annalisa Giannella, “è importante sottolineare come l’UE abbia integrato la dimensione della lotta alla proliferazione nelle sue relazione esterne e come ora non esiti a far leva sulla sua importanza economica e sull’attrazione che il suo mercato o il suo aiuto allo sviluppo possono esercitareper perseguire i suoi fini politici e di sicurezza”. La clausola è stata introdotta con successo in molti accordi, anche con Stati fuori dalla stretta cerchia europea, come il Sud Africa. Tuttavia, nessuno degli strumenti di non proliferazione è di per se universale, e ciò ha avuto un impatto negativo sull’esperienza dell’UE nei negoziati con l’India nel 2007. Durante i negoziati per l’accordo di libero scambio, New Delhi ha costantemente rifiutato l’eventuale inclusione della condizionalità politica: una posizione che l’Unione europea ha accettato.
La più grande sfida per far rispettare la politica di non-proliferazione negli accordi esterni è stato probabilmente il caso dell’Iran. Tra il 2002 e il 2005, l’UE ha cercato di moderare il comportamento di Teheran in vari campi politici attraverso incentivi economici e clausole politiche essenziali in un approccio globale commerciale e di cooperazione. In seguito al rifiuto dell’offerta dell’UE e la ripresa della conversione e del arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran, i negoziati sull’accordo sono rimasti a lungo in sospeso e potrebbero solo ora conoscere una svolta a seguito del recente accordo mediato nell’ambito del Gruppo 5+1.
Dal dicembre 2006 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha imposto una serie di sanzioni contro l’Iran, che l’UE ha sostenuto mediante l’attuazione di misure restrittive nel 2007 e 2008. Nel luglio 2010 Bruxelles per la prima volta ha introdotto misure supplementari contro l’Iran oltre a quelle richieste dalle risoluzioni ONU. La portata di tali misure è stata ulteriormente ampliata nel gennaio 2012, fino ad incorporare un embargo petrolifero, sanzioni sui prodotti petrolchimici e diverse misure, tra cui un parziale congelamento dei beni finanziari.
Inoltre L’UE ha negli anni passati anche adottato diverse sanzioni contro la Corea del Nord, rispecchiando le sanzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Inutile dire che tutte queste misure non sono ancora riuscite a frenare i programmi nucleari in entrambi i Paesi.
Proliferazione in atto: quale ruolo per l’Unione Europea e per i suoi partner strategici?
Negli ultimi anni, l’Unione Europea è divenuta globalmente più attiva e in genere più visibile per quanto concerne le questioni relative alla non–proliferazione. Bruxelles ha rafforzato il proprio ruolo da mediatore nel delicatissimo caso Iran ed ha simultaneamente investito in sforzi multilaterali e bilaterali per promuovere la sicurezza nucleare in tutto il mondo.
Secondo una stima per difetto ci sono almeno tre casi di proliferazione di rilevanza globale: Iran, Corea del Nord ed il conflittuale binomio India–Pakistan.
Benché non se ne sia fatta menzione alcuna nella Strategia del 2003, la più evidente presa di posizione della UE in tema di non–proliferazione è data, appunto, dal caso Iran, nel quale l’approccio europeo si è rivelato quanto meno poco ortodosso. Attraverso una metamorfosi complessa, i ponti tra Bruxelles e Teheran furono posti, nell’autunno 2003, da quelli che vennero da lì in poi conosciuti come il gruppo dei E3 (Francia, Germania, Regno Unito) al quale va riconosciuto il merito di aver colmato il vuoto lasciato dagli Stati Uniti non più intenzionato ad un dialogo diretto con Teheran. Presto fu coinvolto anche l’Alto Rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri, Javier Solana e a seguire l’iniziativa fu approvata dai restanti Stati dell’Unione. In pratica si giunse ad un nuova configurazione sintetizzata dalla formula UE+E3, dove Solana provvedeva al collegamento tra i due aggregati, ed in questo modo, la specifica influenza esercitata dal gruppo E3 venne moltiplicata dal supporto offerto da tutti gli Stati UE.
Nel 2004 il complesso UE+E3 negoziava con Teheran l’Accordo di Parigi. In cambio di numerosi benefici economici, si ottenevano dall’Iran due risultati degni di nota: primo la sospensione di tutte le attività di arricchimento e riprocessamento; secondo, Iran accedeva all’applicazione su base volontaria del Protocollo Aggiuntivo, che prevede ispezioni particolarmente rigide da parte della AIEA. Tuttavia, con l’elezione alla presidenza dell’Iran di Mahmoud Ahmadinejad l’Accordo di Parigi finì per fallire.
A partire dal 2006, questo complesso processo diplomatico si arricchisce della partecipazione di tre Paesi non europei membri permanenti presso il Consiglio di Sicurezza ONU (Cina, Russia e Stati Uniti) dando vita ad un nuovo formato E3+3 che prosegui con le negoziazioni sotto la guida prima, di Javier Solana e poi, dal 2009 fino ad oggi, di Catherine Ashton.
Benché oggi Teheran sia molto probabilmente più vicina alla soglia di sfruttamento militare del suo programma nucleare, non si deve sminuire il ruolo giocato dalla UE in questi dieci anni di negoziati.
In primo luogo, all’Unione Europea va il merito di aver mantenuto unita una vasta compagine di soggetti in un caso di proliferazione di alto profilo, e questo è già di per sé un buon risultato. In secondo luogo, i negoziati di Bruxelles hanno prevenuto una escalation della crisi e hanno altresì mantenuto aperti i canali di comunicazione diplomatica tra Teheran e il resto del mondo. In terzo luogo, l’Unione ha dimostrato una forte presa di posizione contro l’Iran adottando sanzioni unilaterali fuori dal quadro sanzionatorio dell’ONU (2012), tra cui l’embargo petrolifero cui si accennava prima: con questa mossa inattesa la UE si guadagnò il rispetto di coloro che sostenevano la linea dura contro Teheran.
Nel secondo importante caso di proliferazione (Corea del Nord) l’Unione Europea ha assunto un ruolo poco più che di spettatore. Bruxelles mantiene i canali diplomatici aperti attraverso il regolare dialogo politico bilaterale con Pyongyang e, allo stesso tempo, sostiene le sanzioni imposte contro il regime. Oltre a questo l’Unione fa esclusivo affidamento su il dialogo a 6 (Corea del Nord, Corea del Sud, Stati Uniti, Cina, Russia e Giappone) e ciò conferma l’idea per cui Bruxelles tende a focalizzarsi prevalentemente sul proprio vicinato e il suo livello di coinvolgimento diminuisce al crescere della distanza geografica. Diversamente dal caso Iran, dove l’alleanza transatlantica ha dimostrato di saper cooperare in maniera proattiva, nel caso della penisola coreana è dunque evidente il mancato impegno dell’Unione Europea e sono quindi Cina e Stati Uniti a guidare il dialogo a 6. Il debole apporto di Bruxelles va a tutto vantaggio degli interessi della Cina che altrimenti vedrebbe il ruolo degli Stati Uniti (integrato dalla partecipazione del partner transatlantico) ovviamente rafforzato.
La terza questione di rilievo per l’Europa è la relazione conflittuale tra India e Pakistan i quali operano fuori dal quadro legale predisposto dal Trattato di Non–Proliferazione Nucleare. La peggiore preoccupazione è senz’altro data dall’India. Da un lato abbiamo i due partner strategici che si dichiarano convinti oppositori alla diffusione delle ADM e dei loro vettori al punto di essere disposti a riunire risorse e sforzi nella lotta di contro–proliferazione, d’altra parte, però, è difficile per Bruxelles accettare che tra i suoi alleati strategici ci sia chi rimane fuori dallo strumento definito come “pietra angolare” del regime contro la diffusione delle ADM.
Conclusioni
In una decade di Strategia per la non–proliferazione, l’Unione Europea ha sviluppato con successo un approccio che può essere la base di un’azione efficace. Allo stato attuale Bruxelles sta implementando programmi ed azioni nella sfera interna ed esterna mirate alla riduzione dei rischi connessi con i materiali chimici, biologici, radiologici e nucleari e a prevenire la proliferazione delle ADM. Come prerequisito di questi buoni risultati c’è soprattutto il fatto che l’Unione ha acquisito le necessarie risorse ed ha predisposto le opportune istituzioni per mettere in pratica il suo impegno contro la diffusione delle armi non–convenzionali.
Nonostante le poco entusiasmanti aspettative di alcuni osservatori (alcuni temevano che la UE si concentrasse più sui processi che sui risultati) Bruxelles ha dimostrato che può conseguire risultati pratici in diversi campi come le negoziazioni di alto profilo con Iran, rafforzare il lavoro di verifica delle organizzazioni internazionali e sostenere gli sforzi di non–proliferazione dei Paesi alleati. Tra i risultati a breve termine vi è stato quello della realizzazione dei programmi tecnici e i progetti di non–proliferazione a vario titolo finanziati.
Quanto fin qui accennato non vuol dire certo che la politica di non–proliferazione dell’UE sia priva di difetti. Fin dall’inizio, per esempio, il coordinamento dei processi di non–proliferazione nell’ambito delle politiche della UE è stato secondario e, allo stesso modo, l’attuazione del Trattato di Lisbona ha portato a significative difficoltà strutturali nel breve periodo.
* Daniel Angelucci è Dottore in in Scienze Politiche (Università di Teramo)
Per approfondire:
- Sen. Gen. Luigi Ramponi, Le Armi di Distruzione di Massa – Rischi e Prospettive, Atti del convegno promosso dal Centro Studi Difesa e Sicurezza a Roma l’8 giugno 2006
- Benjamin Kienzle, A European contribution to non-proliferation? – The EU WMD Strategy at ten, The Royal Institute of International Affairs, 2013
- Ian Anthony and Lina Grip, Strengthening The European Union’s Future Approach To Wmd Non-Proliferation, SIPRI – 2013