di Maria Serra
Avevamo concluso il 2011 dicendo che l’anno che ci stavamo apprestando a vivere sarebbe stato quello in cui – complici anche i numerosi appuntamenti elettorali – i sentimenti popolari, dei quali le piazze si sono fatte portavoce, si sarebbero tradotti in governi e che questi governi avrebbero dato vita a nuove – e concrete – scelte politiche. Così è stato, ma in parte.
È vero, molti sono stati gli avvicendamenti (o le riconferme) ai palazzi governativi (negli Stati Uniti, in Cina, in Russia, in Francia, in Egitto e in Libia, in Corea del Sud e in Giappone, in Venezuela), ma sono ancora parecchie le immagini che ci portano nelle principali città del mondo: dall’Egitto, dove la transizione democratica è – come nelle aspettative – lunga e difficile, al Grande Medio Oriente, dove abbiamo assistito ad una nuova recrudescenza del radicalismo islamista per la prima volta dopo i fermenti del 2011; da Madrid e Atene (solo per citare due fra le capitali che maggiormente hanno risentito della crisi economica e, dopotutto, politica dell’Unione Europea), dove sempre più forte è il sentimento di sfiducia nei confronti di Bruxelles, a Buenos Aires, dove si protesta contro le politiche economiche del governo di Cristina Kirchner e contro il cambio della Costituzione. A queste scene si aggiungono quelle che ritraggono navi ed aerei militari che ci ricordano che i venti di guerra non spirano solo in Medio Oriente e che non provengono solamente da quel “caso geopolitico” per eccellenza che è la Siria. L’Asia Centrale tra instabilità e terrorismo, le rivendicazioni territoriali e il controllo delle rotte in Estremo Oriente, nonché gli scontri tribali e la lotta per l’accesso alle risorse (cui spesso si associano le politiche delle potenze straniere), hanno, infatti, lo stesso potenziale di pericolosità e rischiano di trasformare conflitti a bassa intensità in guerre su più vasta scala.
Crisi di sistemi economici nazionali (e sovranazionali) e gestione di crisi sempre meno asimmetriche in un mondo evidentemente sempre più multipolare sono, in realtà, solo alcune delle sfide cui i volti nuovi (o vecchi) dovranno trovare risposte concrete. I problemi sul tappeto, infatti, restano molti: crisi politiche ed identitarie, rispetto delle libertà e dei diritti umani, affermazione dei principi democratici, garanzia della convivenza tra le confessioni religiose e tra le culture, la gestione dei cambiamenti demografici, la riduzione della povertà e delle disuguaglianze, l’utilizzo delle risorse energetiche, la deterrenza nucleare e la sicurezza internazionale, la lotta ai traffici internazionali e ai cambiamenti climatici.
Barack Obama, forse in maniera un po’ scontata, è stato scelto dal Time come il Personaggio del 2012 innanzitutto per quello che egli rappresenta, per i sogni e le speranze che incarna non solo per il popolo statunitense ma, probabilmente, per il mondo intero. Di fronte alla complessità del mondo attuale è una scelta giusta? L’accordo raggiunto in extremis in Senato per evitare il “fiscal cliff” dà sicuramente la dimensione di un Presidente – e di una nazione intera – pronta ad agire tempestivamente per fronteggiare “baratri”. Eppure ciò potrebbe non bastare. Se Obama non può dirsi con certezza l’uomo del 2012, certamente sarà lui e la sua Amministrazione nel 2013 e nei prossimi anni a dover dar prova che il mito americano – sempre più intaccato dalla crescita economica, culturale e militare del “mondo non allineato” – riuscirà a preservare la propria “egemonia”, intesa, questa, nelle teorie di Gilpin e Krasner, come la condizione della stabilità del sistema internazionale.
Ma la politica della “US primacy” deve fare i conti – ora come non mai – con fattori che non dipendono esclusivamente dalla volontà di chi siede alla Casa Bianca. Infatti, al di là della Siria e del continuo scontro – più verbale in realtà – tra Israele e Iran (due Paesi che nel 2013 vedranno l’esito delle delicate partite che stanno giocando sul piano interno) sulla questione nucleare, sono il rischio dello scoppio di una terza intifada palestinese (annunciata da nuovi, quanto ambigui, gruppi palestinesi, come le “Brigate dell’Unità nazionale”), le instabilità (e i disordini) che potrebbero nascere in Paesi chiave come il Venezuela e Cuba a seguito della morte di leader carismatici come Chàvez e Castro, nonché le tensioni che potrebbero scatenarsi (più di quanto già non sia) in Africa a seguito dei diversi turni elettorali che si terranno nel 2013 in Stati strategici del Continente (tra questi Algeria, Libia, Egitto, Kenya, Etiopia, Zimbabwe), a creare più di un grattacapo al Presidente americano.
Sul fronte asiatico Xi Jinping ha raccolto l’eredità di Hu Jintao con l’obiettivo di ridare nuova linfa al “sogno cinese”, iniziando in primo luogo con una profonda ristrutturazione interna del PCC (significativa è la sua campagna anticorruzione) e del Paese, basata, quest’ultima, sulla tenuta e sulla crescita economica. Ad alti tassi di crescita corrisponde l’imprescindibile stabilità sociale. Nel 2013 il Dragone avrà il duro compito di mettere a tacere quel serpeggiante malcontento popolare che deriva dalla crescita dell’inflazione e dalle sempre più evidenti disuguaglianze. Con un occhio al proprio cortile, Pechino è chiamata a trovare una soluzione definitiva (dopo i tentativi di accordo avvenuti nel 2012) alle annose dispute territoriali con New Delhi, impegnata anch’essa a fronteggiare tensioni interne e istanze di cambiamento sociale.
In questo mondo di “egemone” e – sempre più – “sfidanti” cosa ne sarà dell’Europa? Mentre Putin è impegnato a (ri)costruire l’Unione Eurasiatica come spazio economico-politico-culturale-militare, i leader comunitari arrancano non solo nel trovare risposte condivise sulle questioni economico-finanziarie (di cui la difficoltà di approvazione del quadro finanziario pluriennale, che dovrebbe avvenire nel prossimo mese di febbraio, è solo l’ultimissima spia), ma anche su quelle di politica “interna” ai Ventisette (a luglio 28 con la Croazia) e di politica estera. Pur avendo portato a casa il prestigioso Premio Nobel 2012 per la Pace, Bruxelles dimostra ancora l’incapacità di far sentire la propria voce in questioni che la riguardano da vicino, sia geograficamente che politicamente, come i processi di transizione democratica in Nord Africa, la stabilità del levante mediterraneo, le (in)compatibilità con Paesi “in bilico” – per citare Huntington – come la Turchia (la quale, annaspando, resta alla ricerca di leadership nel mondo islamico) o, ancora, i Paesi caucasici che, dopotutto, costituiscono sempre più una spina nel fianco dell’inquilino del Cremlino.
Il 2013, in sostanza, non sarà altro – come il 2012 – che un tassello di un flusso di eventi che stanno concorrendo a frammentare, a disgregare e allo stesso tempo ricostruire sotto una nuova forma, un mosaico internazionale in bilico tra vecchi (quelli del Novecento) e nuovi equilibri. Se dovessimo riprendere realmente la hegemonic stability theory, fino a quando sarà possibile sostenere gli attuali equilibri di potenza e mantenere questo status quo? Quando dovremo, in via definitiva e in tutti i problemi che il mondo globalizzato comporta, aspettarci la “guerra egemonica”? No, forse – anzi sicuramente – non sarà nel 2013, ma certamente l’anno appena iniziato ci darà la misura, ancora più rispetto a quello che ci lasciamo alle spalle, di quanto e quale sarà il “peso” dei vari attori internazionali nel prossimo lustro.
Con buona pace dell’esistenza di un’organizzazione internazionale che dovrebbe garantire la cosiddetta “sicurezza collettiva” e che, questo sì, ci si aspetta che nel 2013 possa realizzare la tanto attesa – quanto auspicabile – riforma.
Buon anno a tutti!