da qui
Il rumore del cerchione che raschia sull’asfalto è inconfondibile; anche la sensazione di ferita ingiusta, di ribellione non solo contro il chiodo innocente, lasciato lì da una mano improvvida o maligna, ma contro la strada che dissimula l’insidia, il netturbino che non spazza con coscienza, il controllo latitante del Comune, il Ministero impegnato in altri affari, l’Occidente distratto dai consumi, il pianeta avviato alla catastrofe, l’universo che esplode in un’entropia senza rimedio, Dio che ti perseguita, il nulla come sbocco ultimo di ogni corsa pensabile e possibile. Cloe scende dalla bicicletta accanto a una costruzione bianca appena intonacata, con una porta in legno di colore scuro inserita in una specie di archetto incassato, che crea una zona d’ombra nell’ingresso. Cerca invano il campanello; in compenso, sente urla che provengono da una stanza interna. Comincia a battere i pugni sulla porta, finché esplode un rumore di ferraglia di là dal portoncino: le appare un viso affilato, due occhi vivi che paiono strapparle l’anima da dentro; il tutto incorniciato da un velo nero con un bordo bianco: una suora! Cloe non riesce a collegare i lineamenti piacevoli del volto con le urla provenute dal piano superiore. La religiosa coglie l’imbarazzo e invita la ciclista a seguirla nella casa. L’interno del convento è il contrario della facciata impeccabile e appena rifinita: le crepe dei muri sono coperte a malapena da piante rampicanti che piovono da archi sovrapposti, pieni di vasi vecchi e scorticati; lungo il corridoio si succedono armadi scoloriti, tavolini scheggiati e casse di cartone; gatti di varie dimensioni cercano cibo – topi, forse, a giudicare dall’ambiente. Cloe è inebetita, anche per l’arrivo di una seconda suora con l’abito in disordine e segni evidenti di colluttazione. La religiosa che l’ha accolta esorta la ciclista a sedersi su una delle casse, mentre un felino le si avvicina e le si struscia contro, facendo le fusa. Senza che Cloe le abbia chiesto nulla e senza dare spiegazioni, la suora comincia a raccontare. Ha una voce bassa e pastosa, affascinante, da contralto; lascia sfilare immagini che si moltiplicano quasi da se stesse, senza sforzo: un agguato in un viale di ulivi, un incidente su una strada di periferia, la nostalgia di uno scrittore trapiantato, l’incertezza di un docente che sogna un’altra vita, la disperazione di un intellettuale tentato dal suicidio, l’appuntamento del destino fra una donna e un uomo rosi dal tarlo della contraddizione, le avventure casalinghe tra cimici e formiche di un direttore editoriale. Cloe si accorge a poco a poco che il racconto giustifica il disordine del mondo, trasfigura il corridoio fatiscente, gli armadi sbilenchi, l’edera che scivola su crepe, fessure, incrostazioni: tutto si riscatta nel vortice della narrazione, nel piacere di seguire la corsa di una storia. Di qualunque storia, è il suo ultimo pensiero, prima di svenire per l’emozione e la sorpresa.