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Creato il 27 maggio 2014 da Malvino
Ho scritto che maramaldeggiare è lemma infedele, perché, com’è per tanta antonomastica, tradisce il portato («didascalizza la qualità che intende far viva con l’esemplarità del campione, privando questo di ogni profondità psicologica e morale, e quella delle sfumature che la rendono umana») e, nel caso di Fabrizio Maramaldo, anche il portante («pare che la storiella messa in giro da Paolo Giovio non trovi alcuna conferma sul piano storico»), ma, concedendo che «ciò che dalla storia passa alla lingua prescinde da ciò che è impossibile pesare a distanza», non ne ho suggerito uno alternativo per quell’«infierire vilmente sullo sconfitto» – così per la gran parte dei lemmari – che ci sembra turpe anche quando si scagiona col darsi come giusta «punizione di chi ha commesso una turpitudine» (Malvino, 28.11.2013). Se oggi torno sull’argomento è per cercare di individuare i connotati di ciò che nell’«infierire vilmente sullo sconfitto» cerca di darsi come ius per farcelo sembrare iustum, e per farlo mi servirò dell’editoriale che Giuliano Ferrara ha dedicato al deludente risultato elettorale del M5S (Il Foglio, 26.5.2014).In via preliminare occorre sottolineare che a «infierire vilmente sullo sconfitto», qui, non è chi possa dirsi propriamente vincitore: parliamo, infatti, del tizio che per vent’anni ha retto lo strascico a chi da questa tornata elettorale esce con le ossa rotte almeno quanto Beppe Grillo, quel Silvio Berlusconi che per Giuliano Ferrara ha incarnato, finché ha potuto, tutte le virtù del potere come esercizio di regalità; parliamo, tuttavia, anche del tizio per il quale questo tipo di potere non si estingue nella carne che di volta in volta veste, ma passa, inalterato per forma e misura, dal potente del momento a quello del momento che segue, secondo una progressione dinastica che a ragione sembrerà atipica per la discontinuità del casato, ma che in realtà trova il suo continuum in una linea sulla quale Togliatti, Craxi, Berlusconi e Ratzinger possono ben essere colti come segmenti articolati.Ma cosa torna a giusta punizione di un Beppe Grillo? Dove trova fondamento lo iusche fa iustum il maramaldeggiarlo? È presto detto: «Se Dio vuole la politica democratica è un mondo di corruzione, di decadenza, di mitezza sfuggente e di pratica della mediocrità che non prevede pulsioni visionarie di quella fatta. Un’alleanza dei fattori di stabilità e di vita avrà ragione, com’è civilmente naturale, dell’odiosa esibizione, e scaltra, di purezza moralizzatrice e di futuro da acchiappare con gli artigli. Così in poco tempo il passato, l’andazzo, la tradizione, il buonsenso…». Può bastarci, abbiamo inteso, e basterà correlare i termini che Giuliano Ferrara erige a pilastri della vita – almeno della vita com’egli la intende – perché sia chiara la colpa di cui Beppe Grillo s’è macchiato, pagandone il prezzo dovuto: ha osato mettere in discussione un passato di corruzione, il naturale andazzo d’una normale decadenza, quella tradizione di mitezza sfuggente e di pratica della mediocrità che in fondo è solo sano buonsenso, quel regale tollerare «il gioioso legno storto di una comune umanità» che alla bisogna può tornarci comodo come randello sul groppone di chi si azzarda a contestare la legittimità del re. Potrebbe dirsi la carezza del cardinale Ruffo alla sua cagna sanfedista.  

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