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30. La nuvola

Creato il 12 ottobre 2011 da Fabry2010
30. La nuvola

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Lo sciopero andò avanti, nonostante le minacce, i trucchi e le violenze che i bianchi scatenarono.
La distesa dei campi è sconfinata, il grano si arrotola sul mondo, ne fa un batuffolo giallo lanciato nello spazio.
La nuvola di vento si forma lentamente, come zucchero filato; ti accorgi del pericolo soltanto se comincia a rombare come un carro armato, girando su se stessa come un ballerino  ingrassato che ha ancora agilità dei movimenti.
Fecero finta che andasse tutto bene, non ammisero le perdite, che aprivano falle paurose nel bilancio della ditta.
Un’auto viaggia sollevando una polvere sottile, l’unico segno di vita nel deserto d’immagini e di voci.
La rotazione trasforma la nuvola in figure sempre nuove: un trapezista coi capelli lunghi, un cagnolino che corre a gambe alzate e occhi spalancati, un uomo che ride nascondendosi la faccia tra le mani.
Non sapevano più come fermarmi: la pattuglia della polizia che si accostò per accusarmi di eccesso di velocità era la faccia ipocrita della menzogna bianca, la mossa disperata di chi non aveva più argomenti.
Il grano tagliato lascia ciuffi in disordine come una barba incolta, come la pelle rugosa dei poveri, dei contadini sfruttati che non hanno il tempo di guardare il cielo.
Ora la nuvola è un reggiseno gonfio, due natiche che si offrono alla vista di un uomo legato allo schienale di una sedia – dove ti ho vista, dove ti ho incontrata? Perché i tuoi occhi mi seguono come per chiedermi qualcosa?
Mi portarono dentro: ricordo solo il buio, il silenzio della cella e tu, Malcolm, dicevi che non era che pubblicità.
Il vecchio con la scoppola e gli occhiali pesanti ha qualcosa da dire, appoggiandosi al bastone.
Nella nuvola si aprono ferite, vuole travolgere gli alberi, buttare giù le case – sei proprio convinto che solo uccidendo si possa fare la rivoluzione?
I compagni di prigione mi chiedevano aiuto, Martin, facci uscire!, bene, ragazzi, non vedete che sono anch’io qui dentro?
Parla di gente che raccoglie sabbia con le mani, di operai che spalano la pula come fosse un mucchio di ricordi vergognosi.
Il respiro è affannoso, fa paura la furia del tornado, la nuvola assassina che semina morti sperando in un raccolto di sangue e cimiteri – dove hai imparato, Malcolm, a rifiutare ogni mediazione, a credere che sia comunque viltà una mano tesa?
Fui accusato di vanità e protagonismo, di mirare a far carriera con la mia politica buonista – perché mi ricordo di te seduta su un divano, con la gonna corta, gli occhi sempre fissi nei miei, come se non ci fosse da guardare altro?
La terra ha i solchi della faccia dei poveri, le spighe sono bretelle che scendono lungo la camicia dalle maniche chiare e arrotolate.
Il terrore dell’immenso fungo che cammina spezza il respiro, lampi d’incendi si accendono e spengono come se la città fosse una centrale elettrica impazzita.
Ma la pubblicità serviva, Malcolm: senza, non saremmo andati da nessuna parte, puoi ammetterlo ora che il cimitero è l’unica casa rimasta da abitare?
Il bambino mangia sporcandosi la bocca, un giovane cammina nel campo deserto che potrebbe essere la luna o il cuore arido della lontananza – ecco, ricordo, i tuoi seni, il sorriso enigmatico, l’invito che diventa una sfida, la paura e il desiderio della libertà.



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