[...Il dialogo] dà luogo a delle non inutili riflessioni. La prima riguarda la durata: tra lo smarrimento di Tritto, il suo pianto, il passaggio del telefono al padre, le esitazioni e le ripetizioni del brigatista, non meno di tre minuti. Certo, involontariamente, nella confusione e commozione in cui lo gettava la notizia, Tritto si è comportato come chi vuol prendere tempo e darne alla polizia. Poiché il brigatista telefonava dalla stazione Termini, dov'è c'è un posto di polizia e nelle cui vicinanze è da presumere si trovino sempre delle autopattuglie collegate per radio alla questura, prenderlo sul finire della telefonata non sarebbe stato impossibile. Questa stessa considerazione va ribaltata sul brigatista: sa che il telefono di casa Tritto è sotto controllo, sa che l'attardarsi della telefonata può essere fatale; eppure è paziente, meticoloso, riguardoso persino. Ripete, si lascia andare a un "mi dispiace"; e insomma diluisce in più di tre minuti una comunicazione che avrebbe potuto dare in trenta secondi. Si può spiegare questo suo comportamento con la sicurezza - che gli viene da una ormai lunga sperimentazione - di un muoversi della polizia mai a misura di minuti [...] ma non si poteva sottovalutare il rischio che questa volta, per l'enormità della notizia e dopo quasi due mesi di affinamento alla caccia, scattasse un'operazione di eccezionale celerità. Che cosa dunque trattiene il brigatista a quella telefonata, se non l'adempimento di un dovere che nasce dalla militanza ma sconfina ormai nell'umana pietà? La voce è fredda; ma le parole, le pause, le esitazioni tradiscono la pietà. E il rispetto. Per quattro volte chiama Moro "l'onorevole" e per due volte "il presidente". Quel linguaggio tra goliardico e da sezione rionale del Partito Comunista con cui nei comunicati le Brigate parlavano di Moro, è scomparso. "L'onorevole", "il presidente". Nel loro manifesto o latente antiparlamentarismo - non del tutto gratuito, non del tutto ingiustificato - mai credo gli italiani avevano pensato che il titolo di "onorevole" venisse da "onore" come nel momento in cui l'hanno sentito dalla voce del brigatista accompagnarsi al nome di Moro.
Forse ancora oggi il giovane brigatista crede di credere che si possa vivere di odio e contro la pietà: ma quel giorno, in quell'adempimento, la pietà è penetrata in lui come il tradimento in una fortezza. E spero che lo devasti.
(Leonardo Sciascia, L'affaire Moro, 1978)