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35. Masticando le parole

Creato il 17 ottobre 2011 da Fabry2010

Pubblicato da fabrizio centofanti su ottobre 17, 2011

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Sì, se lo sono chiesto in molti.
Nello scudo c’è il riflesso di una faccia, ha il naso affilato, le labbra grosse e chiuse in una morsa.
Come mai solo alla fine, quando c’era tutta una vita per mettere le carte sulla tavola?
Una striscia nera copre l’occhio: senza quella si sarebbe capito, ti avrei riconosciuto.
Sai, me lo chiedo anch’io, se penso alla neve in cui affondavo i passi, quando la chiesa sembrava un miraggio, in lontananza, proprio sotto il monte.
Ora è chiaro, è un poliziotto con la visiera calata – si può sfondare la visiera, con un colpo netto?
C’erano solo le mie orme, come quelle dell’uomo sulla luna – perché non hai mosso prima i passi lasciati sulla terra prima di morire?
Quando stavo nella casa in pietra  tutto mi sembrava vivo e dolce, come se la vita fosse una speranza gonfia e avesse la stessa freschezza della neve.
Hanno i volti coperti da un cappuccio, si guardano intorno, si consultano, sono un gruppo compatto dietro lo striscione rosso.
Anche la salita sembrava fatta apposta per le nostre corse di bambini, quando il fiato mancava solo ai genitori che cercavano di prenderci – ecco: perché la prudenza, perché frenare la forza, l’entusiasmo?
Allo scoppio dei petardi, la folla si protegge come può: qualcuno si mette in testa una lamiera, una donna con megafono e berretto urla parole che nessuno sente.
I colli erano seni che non avrei mai visto, il campanile un membro inutilmente slanciato verso l’umido del cielo.
Gli agenti sono una massa scura divisa dal resto della piazza da una barriera fitta di fumo.
Non ho mai capito quale fosse il segreto della voce, era come se cantando masticasse.
Il San Giovanni poteva essere il Calvario, dove i tre crocifissi sarebbero stati estratti a sorte nel prossimo conclave – ecco: perché hai aspettato fino allora, non potevi sbilanciarti prima?
I fuochi si accendono come torce di una via crucis di caschi, manganelli, lacrimogeni, voli ciechi di sanpietrini lanciati come bombe a mano senza manico e leva.
Sì, come dire, si mangiava le parole, in un americano che faceva girare le ragazze.
Dal sole, a volte, partiva un raggio che colpiva gli alberi, i prati colmi di neve, i tetti delle case.
Corrono: gli agenti, la folla spaventata, gli incappucciati coi segnali stradali sotto il braccio.
Anche gli occhi contavano, con l’aria distratta che invece ti radiografava, passandoti da parte a parte.
Ricordo, sull’arco, una stella cometa – ecco: se dovevi fare luce, se ti chiamavi Angelo, perché l’hai trattenuta tanto a lungo, perché hai ripiegato le ali che fremevano per spiccare il volo?
I ragazzi hanno la faccia insanguinata, si toccano con mani impolverate, mentre cercano riparo.
Era bello vederlo quando, con la macchina sportiva, scivolava lento lungo il viale gravido di luci.
Non c’era la Madonna a proteggerti, dal quadro inchiodato al sommo della porta? Che cosa poteva ostacolare la tua rivoluzione?
Le sirene, il fumo, le spranghe di ferro, sono la faccia dell’inferno che fissa la basilica negli occhi.
Non c’è niente di meglio del momento in cui stai per incontrarla, le mani sul volante sono lingue di fuoco che consumano lo spazio e il tempo.
Come mai, tutto in una volta, hai raccontato il sogno che ti seguiva da bambino?
La polizia è una falange in movimento, arrivata troppo tardi.
Finalmente la vedi, cominci a cantare, masticando le parole.


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