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4. Racconto Concorso "Il Bene e Il Male"

Da Angivisal84
Il viaggio di Amina
di Stefano Telera

Ho viaggiato molto, e lontano accompagnato da amici, a volte. Ho visto cose strane ed ho affrontato atrocità. Sono sceso solo sotto terra cercando la compagnia di Dio”Epitaffio sulla tomba del viaggiatore Alì Ibn Bakr al Harawi

Quando usciva di casa di mattina presto, per andare a scuola, Amina si concedeva sempre una piccola deviazione per indugiare davanti al negozio del fornaio. Amava l’odore del pane appena sfornato: quella fragranza intensa e inimitabile che impregnava le sue narici, esaltando il suo giovane spirito, l’accompagnava fin da bambina. Il panificio con l’attiguo laboratorio, operoso già prima dell’alba, si trovava a fianco della sua casa e, con il tempo, si era abituata ad apprezzare le sfumature di sapore di ogni tipo di impasto. Una tazza di latte e una pagnotta croccante, accompagnata da un frutto o magari da una prelibata confettura di rose, erano più che sufficienti per iniziare le fatiche della giornata con un soave sorriso sulle labbra. Amina aveva molti amici: i compagni di classe, i figli degli abitanti del quartiere, i componenti del corso di canto. Con loro amava esplorare la città. La si riconosceva spesso, in mezzo a gruppi di adolescenti spensierati e chiassosi, mentre scorrazzavano tra le strade trafficate e polverose; si ristoravano dalla calura nei piccoli giardini, all’ombra delle palme; inseguivano ridendo i motorini scalcinati dei ragazzi più grandi; o si affrontavano in epiche sfide a pallone, in parcheggi abbandonati. Quei giovani erano gioiosi perché sentivano di rappresentare la linfa vitale della metropoli, sapevano che quella città sarebbe un giorno appartenuta a loro e volevano conoscerla bene per poterla abbellire e migliorare. Perché solo ciò che si conosce profondamente, si può arricchire.

Nessuna differenza, di convinzioni politiche o religiose, di etnia o di censo sembrava loro sufficiente per separarli; condividevano insieme quella terra ed era abbastanza.Del resto, avevano la fortuna di abitare nella città più bella del mondo, “La Grigia”, in onore della pietra calcarea con cui erano stati edificati i suoi nobili e decadenti palazzi, le torri dalle guglie affusolate, il suo immenso caravanserraglio e la fortezza in rovina, che la dominava dall’alto, con inespugnabili bastioni. Perfino le dimore più misere e i quartieri meno abbienti, solcati da vie strette e tortuose, sembravano godere di riflesso di quella antica magnificenza, amalgamandosi naturalmente in un grande, candido alveare, pulsante di vita. Quando suonava la campanella della fine delle lezioni, la ragazza scattava fuori come un felino, con lo zaino scollacciato che ballava sulla schiena, passava a casa a salutare i suoi genitori e poi, finiti i compiti, via di nuovo in strada con i fratelli e gli amici. Gli abitanti del quartiere la riconoscevano subito, anche solo dalla voce squillante, che preannunciava il suo arrivo. Sapeva farsi voler bene da tutti, e non era gelosa della sua intelligenza, prestandosi senza difficoltà ad aiutare nello studio i compagni in difficoltà. Forse solo per questo, lei scherzava, continuavano a tenerla pazientemente, come membro del coro, nonostante la sua evidente mancanza di talento. Eppure le insegnanti le perdonavano volentieri le stecche ricorrenti e la sua testardaggine, pur di serbare per tutto il gruppo di piccoli cantori, la sua allegria contagiosa. E poi, Amina era bella, aveva i capelli neri e crespi, uno sguardo impertinente e monello che le modellava un viso dai tratti dolcissimi, gli occhi profondi del colore dell’ebano, la pelle ramata, le membra asciutte e toniche e un corpo, che stava sviluppando rotondità inattese, di cui cominciava a essere orgogliosa.Da qualche tempo, Amina celava un segreto: aveva conosciuto un ragazzo, poco più grande di lei che la intrigava e forse le faceva battere un po’ il cuore, anche se non riusciva ad ammetterlo nemmeno a sé stessa.Si erano incontrati in un piccolo parco di periferia, in prossimità della massiccia Porta Occidentale, ornata da grandi leoni di basalto, dove alcuni volenterosi abitanti del posto, avevano allestito della aiuole variopinte. Da tempo Amina desiderava conoscere meglio quella zona. Circolavano strane storie e gli stessi genitori preferivano sorvolare sul motivo per cui gli spalti in rovina erano rimasti così abbandonati, quasi un monito per le generazioni future. Dicevano fossero i resti di un assedio terribile sostenuto secoli prima e di tempi cupi governati dall’odio e dalla guerra. Si riteneva che portasse sfortuna attraversare quel passaggio, specialmente nelle brevi giornate d’inverno, al tramonto, quando il sole scompariva gradualmente all’orizzonte, in un oceano rosso di fuoco e i ruderi potevano essere infestati da demoni oscuri, dalla testa umana, il corpo di uccello, la coda di scorpione e le zampe di insetto. Sapeva che non erano luoghi adatti a una ragazza, specie se non accompagnata, eppure, di tanto in tanto, le piaceva ritirarsi laggiù, sul bordo estremo di quel confine, per osservare le mura diroccate. Immaginava tempi remoti in cui quei cancelli venivano serrati e presidiati da guardie armate, affinché nulla in quella conca circondata dalle montagne, potesse entrare e minacciare la città. Si domandava se anche laggiù, oltre le fortificazioni, ci fosse qualcosa per la quale valesse la pena vivere.Amina stava innaffiando una rara varietà di begonie quando si era accorta del giovane che la scrutava con curiosità, affacciandosi timidamente da dietro uno dei bastioni. Riconoscendo il suo imbarazzo, gli aveva regalato un sorriso festoso, invitandolo a raggiungerla e questi non si era fatto pregare per aiutarla, prelevando per lei l’acqua alla fontana. Il giovane Adad le era sembrato molto gentile quel giorno e anche quello successivo, quando con una scusa era riuscito a strapparle un altro appuntamento. Le piaceva il suono caldo della sua voce e l’espressione seria che si dipingeva sul suo volto di ragazzo, mentre enunciava con enfasi le proprie convinzioni, cosa che gli conferiva una aura di saggezza, tipica dell’età adulta.In breve tempo, erano divenuti inseparabili. Insieme salivano sulle pendici della collina erbosa, ricoperta in primavera da fiori profumati, che sovrastava la città. Lassù si scambiavano gesti affettuosi e confidenze, ammirando le schiere delle case in pietra, i bei tetti a cupola bianchi e azzurri, la selva delle torri che puntavano i pinnacoli verso il cielo, quasi sfidandolo. In fondo a un largo viale alberato, si riconoscevano i quartieri residenziali; verso sud si ergeva la sagoma scura dell’antica sinagoga, e poco oltre, i minareti a pianta quadrata della moschea rivestita di marmi policromi; in direzione del mare, si innalzava l’esile campanile della chiesa melchita, dove nei giorni di festa era usanza distribuire dolci ai bambini. Amina era orgogliosa della sua terra, crogiolo di razze e tradizioni diverse e non invidiava la ricchezza. Era persuasa di possedere già tutto quello di cui aveva bisogno: una famiglia che la amava, la possibilità di studiare, la sua pagnottella quotidiana e ora anche un amico speciale. Qualche volta si sentiva in colpa perché non lo aveva ancora presentato a nessuno dei suoi vecchi compagni, tuttavia quando finalmente riuscivano a vedersi, preferiva goderselo da sola, come un premio per le sue fatiche settimanali. Anche lui del resto pareva volere stare solo con lei, riservandole mille affettuose attenzioni. Entrambi coltivavano lo spirito di ribellione, la curiosità e l’inquietudine propria degli adolescenti, ma Amina a volte non seguiva i pensieri del ragazzo. Egli si lamentava spesso che nel suo quartiere erano troppo generosi e tolleranti, non si poteva pretendere di essere tutti uguali, c’erano delle precise gerarchie da mantenere, le ingiurie di alcuni nei confronti della vera fede andavano severamente punite altrimenti gli eletti avrebbero perso tutto. Per questo esistevano gli eroi, il cui compito era perfino quello di sacrificarsi per gli altri. Inizialmente Amina aveva difeso con veemenza i suoi principi, poi aveva ritenuto di dover essere accomodante, per compiacere il suo innamorato.Col tempo, tuttavia, quelle argomentazioni articolate e sottili si erano sedimentate nel suo spirito libero fino ad orientarne, quasi inconsapevolmente, i pensieri e a minare la sua fede nel prossimo.Anche le ambigue insinuazioni sulla sincerità dei vecchi compagni, sembravano trovare sempre nuovi riscontri e lentamente, il germe della diffidenza e il senso di una superiorità immanente cominciarono a deteriorare i rapporti con gli amici di un tempo, rendendola progressivamente più isolata e insicura. Adad aveva conquistato la fiducia e la ragione di Amina, l’aveva resa cieca, sorda e muta come l’amore, ormai assoluto, che lei provava per lui. Un giorno, con la promessa di baci appassionati e di una fuga d’amore, si erano dati appuntamento negli stessi luoghi dove quasi un anno prima, era avvenuto il loro primo incontro. Era un pomeriggio afoso e i raggi del sole, appena velati da pallide nubi, martellavano incessanti la vecchia città. La ragazza arrivò al parco in anticipo e aspettò Adad in silenzio, prefigurando l’emozione di quello che l’attendeva. Osservava le arcaiche mura che aveva sempre temuto di varcare, pensando che presto il suo cavaliere l’avrebbe condotta oltre quelle barriere. Passò vicino alle aiuole sfiorite, infestate dall’erba gramigna e da piante parassite, chiedendosi perché fossero state abbandonate. Provava una inquietudine strana, come se avesse fatto qualcosa di sbagliato.Il ragazzo la fece attendere più del dovuto, fino a costringerla a contemplare gli iniziali riverberi del crepuscolo. Non era la prima volta che Amina mentiva ai genitori per allontanarsi indisturbata, ma in quell’occasione particolare provava vergogna, perché non aveva potuto partecipare insieme a loro, come consuetudine, alla grande festa del quartiere, che si svolgeva nel mercato. Infine, con un sospiro di sollievo, vide affacciarsi tra le rovine, il viso terreo di Adad, che la salutava con un risolino sghembo. Insieme, mano nella mano attraversarono la Porta Occidentale in direzione del sole che stava esaurendo il suo ciclo. La ragazza non fece in tempo nemmeno ad accorgersi che quella che stava stringendo non era più una mano, ma l’ informe appendice di un essere indicibile. Il panorama oltre la porta l’aveva lasciata senza fiato: si trovava vicino casa sua, ma il panificio era scomparso, al suo posto, cumuli di macerie. Non sentiva più l’odore del pane, percepiva solo quello acre del fumo che bruciava le sue narici. Le case e le strade parevano bombardate, dolore e sofferenza trasudavano dai muri delle case, butterati dalle esplosioni. Divincolandosi con furore, si era precipitata verso il mercato, alla ricerca dei familiari e degli amici, inseguita da risa sardoniche. Non ritrovò i colori sgargianti dei tessuti esposti sulle bancarelle, la moltitudine delle spezie, delle verdure e dei frutti freschi raccolti dai contadini, né ascoltò i richiami dei venditori di dolci, le melodie dei cori che accompagnavano le coppie danzanti sul palco, ma vide solo una lunga teoria di cadaveri.Il suono cupo di un allarme risvegliò Amina. Si guardò intorno, sollevando la federa sporca di sangue rappreso che le copriva il volto e provò una fitta dolorosa al capo.Aveva lasciato che il male corrompesse il suo spirito e che infrangesse i suoi sogni. Allora si era ricordata di quell’ ultimo incontro, dello zaino che Adad indossava quando le aveva chiesto di accompagnarlo prima alla festa, della luce improvvisa e del rumore sordo dell’esplosione al centro del mercato, delle urla scomposte dei bambini, delle sue gambe che non c’erano più in quel sudicio letto d’ospedale. Le lacrime le rigarono copiose sulle guance smunte e dolenti; volse lo sguardo di lato e chiuse gli occhi, sperando solo di addormentarsi presto e di tornare a sognare di correre ancora felice con i suoi veri amici. 

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