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41. Il giardino incantato

Creato il 24 ottobre 2011 da Fabry2010

Pubblicato da fabrizio centofanti su ottobre 24, 2011

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Stavamo parlando di condanne: sì, è più facile condannare che capire. Basta mettere alla fine della frase un anàtema sit, secco e indiscusso.
Analizzare, distruggere, ricostruire, piazzare le tessere del mosaico al posto giusto per disegnare un futuro adatto ai tempi.
La guardia svizzera legge, legge – chiedo spesso a un’assemblea di pensare a un foglio a due colonne: da una parte devo e dall’altra voglio; quale lato riempite di più?
Immagino una chiesa che si preoccupi di parlare ai giovani, di tradurre in volgare il latino incomprensibile dei documenti, di guardare negli occhi chi si sente tanto lontano da non pensarci più.
La baionetta a difesa del vangelo, la mappa dei giardini vaticani come un monopoli da cui sono stati cancellati gli imprevisti e sono esigue le probabilità di toccare il cuore di qualcuno.
La ragazza scruta il vuoto accucciata sulla Vespa, come una Madonna di Antonello da Messina. Dimmi, cosa pensi? Ti prego, m’interessano i tuoi sogni.
Vorresti sempre tutti sull’attenti, ma sarebbe bello interpellarli, informarsi sulla loro salute, sui ricordi che li consumano di nostalgia, sulla lacrima che scende e viene subito ricacciata dentro, per vergogna o timidezza.
Visti dall’alto sembrano la reggia di Caserta, al punto che il cemento oltre i cipressi disegna, in confronto, solo il contorno triste di case popolari.
Ho sempre desiderato un motorino, sentire l’aria che schiaffeggia il viso, l’ebrezza della libertà, gli occhi azzurri del cielo nei miei occhi.
E’ facile urlare, dire questo si deve e questo non si deve, ma lo sai che è sbagliato il termine comandamenti, che nell’originale c’è scritto – guarda un po’ – parole?
I fiori sono i pensieri positivi protetti in una serra irraggiungibile, il terreno di un re che aveva due castelli – Faber, Faber mio -, uno d’argento e uno d’oro.
Ma i miei genitori avevano paura che morissi, immaginavano lo schianto prima ancora che accadesse, piangevano al funerale di un morto ancora vivo.
Cosa deve fare, la Chiesa? Marciare al ritmo cadenzato delle guardie svizzere o piegarsi sulle angosce della gente, sui sensi di colpa, sull’inquietudine creata ad arte da un sistema che ha paura del sorriso?
Ma per lui non il cuore di un amico, mai un amore né felicità.
Avrei voluto correre in branco coi miei amici e mi ritrovai a leggere i poeti, maestri di malinconia, coi quali intrapresi un viaggio molto più pericoloso all’interno di me stesso.
Le mura sovrastano tutto, le alabarde, gli elmi con le piume, sono sempre più alte del salto che sai fare.
Un castello lo donò e cento e cento amici trovò, l’altro poi gli portò mille amori, ma non trovò la felicità.
La chiesa preferisce le beghine che strusciano sul cemento dei santuari e snocciolano novene infinite a santi sconosciuti? – per carità, tutto è grazia, Gesù Cristo ha elogiato la fede della vedova.
Se un teologo non può dire ciò che pensa, se i sogni di una notte di luna devono essere rinchiusi nel cassetto, come riuscirà a parlare al mondo?
Non cercare la felicità in tutti quelli a cui tu hai donato per avere un compenso ma solo in te, nel tuo cuore, se tu avrai donato solo per pietà.
Eppure resta nella Chiesa: ecco gli eroi di questo mondo, non so se dell’altro, dell’altro non so nulla, ma lo immagino diverso dal giardino incantato in cui non arriva il rumore dei singhiozzi, l’eco sorda delle grida dei pazzi e dei malati.


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