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60. Premio Lipp 2011

Creato il 24 novembre 2010 da Fabry2010

60. Premio Lipp 2011

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Leopoldo non sa dove andare: Parigi è troppo grande, anche considerando solo gli angoli dimenticati che tanto piacciono a Maria. Si ferma nella brasserie Lipp di Boulevard Saint Germain. Una tenda arancione sembra accoglierlo festosamente: si siede a un tavolo e ordina una birra. C’è qualcosa di molto chic per le sue tasche – anche se la gente si accalca ai tavoli e per chi dovesse alzarsi sarebbe arduo trovare un corridoio – ma ha sentito che qui viene assegnato un premio letterario e non ha saputo resistere alla tentazione. I camerieri sono tutti in abito nero e papillon sulla camicia bianca; gli specchi a muro rimandano immagini di fiori, persone, lampadari, mentre sui tavoli campeggiano piatti dalle fogge aristocratiche e bottiglie di vini di Bordeaux. Finita la birra, Leopoldo ha un’intuizione: si ricorda di autori visitati da presenze strane, guidati a scrivere senza alcun intervento cosciente della volontà. Perché non provare? Cerca di astrarsi dal chiacchiericcio fitto della folla; ecco, ora è solo, nella sala vuota; avverte nella mano destra una corrente sempre più percepibile e sicura. Estrae il blocchetto per gli appunti e lascia che il testo sbocci come in trance:
In genere, quando si inizia un romanzo, si è convinti di scrivere qualcosa di assolutamente originale, un’opera che passerà alla storia, si distinguerà dall’ammasso di carta quotidianamente riversato sulle bancarelle di mezzo mondo (la parte di mondo dove si ha tempo per leggere, e non si sgobba venti ore al giorno per un pugno di riso, per esempio). Chi si accinge a riempire il foglio bianco o la parte di schermo destinata alla scrittura, poi, si dà arie da bohémien, circondato da una cifra imprecisata di tazzine vuote da caffè e/o mozziconi di sigarette accumulati in ogni angolo; ha un aspetto scapigliato e una finestra che dà su qualche scorcio di città particolarmente pittoresco. Basta affacciarsi, la sera, guardare le coppiette che si stringono con il gelato in mano, l’ubriacone che barcolla cercando di trascinarsi al bar, i bambini che s’inseguono passando sotto le gonne svolazzanti delle mamme (se esistono mamme giovani con gonne, nella civiltà dei jeans con squarci e patacche obbligatori), ed ecco che l’ispirazione arriva per miracolo. Si ritiene, in genere, che per scrivere un romanzo sia utile affittare (o, se si può, acquistare) un faro dove l’oceano percuota la scogliera, perché la schiuma, il vento sono ingredienti topici in contesti letterari. In realtà, è sufficiente un computer in una stanza di periferia affacciata su palazzi dozzinali senza alcun segno di riconoscimento, e una strada dove i clacson e le bestemmie s’inseguono privi di qualunque logica apparente. Insomma, nessuna notte buia e tempestosa, solo un torrido pomeriggio d’agosto in cui un obiettivo ragionevole è sopravvivere alla pressione bassa e al caldo.
Leopoldo scrive, scrive, non si ferma mai; riempie cinquantanove pagine in cui lui è il protagonista; ma ci sono anche Saulo, Giulio da Padova, Maria; rintraccia informazioni preziose: gli ultimi movimenti della sua scrittrice, il luogo dell’incontro con Andreas, la ricerca di una vena creativa, della riconciliazione con il personaggio; sorride e si commuove, Leopoldo, non crede ai suoi occhi: perché non ci ha pensato prima?
Il proprietario della brasserie s’incuriosisce e chiede di leggere il testo. Dopo qualche minuto esclama a voce alta:
- E’ bellissimo! Potrebbe vincere il premio Lipp 2011.
- Sta scherzando? si schernisce Leopoldo. Questo romanzo incontrerebbe diffidenza e indifferenza fra i maggiori esperti: Beppe Geenna, pace all’anima sua, Giulio da Padova, Giovanni Paolo Pierino.
- In Italia non capiscono nulla.
Leopoldo dovrebbe arrabbiarsi e invece si rilassa all’improvviso:
- Me lo renda: glielo consegno quando avrò finito.
- Promesso?
- Promesso.
Si fa strada tra la folla di gente e di parole, paga alla cassa ed esce in strada.



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