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80. Volevo dirti

Creato il 30 aprile 2011 da Fabry2010
80. Volevo dirti

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I due letti sono accostati, per cui i pazienti possono parlarsi. Li divide una colonna carica di macchinari: misuratori di valori ingombri di cifre e grafici elettronici. Cosimo si volta leggermente verso destra e studia il vicino che ha lo sguardo fisso, come stesse contemplando uno spettacolo visibile a lui solo.
- Come va?
- Per aver preso cinquecento grammi di Pentobarbitale, direi bene. La lavanda gastrica funziona quasi sempre.
- Perché l’hai fatto?
- Ci sono momenti, nella vita, in cui devi decidere se vale la pena continuare.
- Che impiego hai?
- Sono uno scrittore. Anzi, lo ero.
- Perché il passato?
- Quando il cuore è inaridito, cosa scrivi? Non sono di quelli che si siedono al tavolo e vada come vada.
- Non hai più argomenti?
- E’ come se le immagini morissero sul nascere: una stanchezza invincibile le logora, le affloscia, prima che possano sbocciare.
- A me succede il contrario.
- In che senso?
- Arrivando in ambulanza ho avuto visioni prive di qualunque filo logico: da allora, provo a collegarle e interpretarle, a dare un senso a un pensiero che m’insegue sotto forma di azioni e personaggi.
Il vicino si solleva a fatica. Le parole di Cosimo lo hanno scosso dal torpore. Lo guarda negli occhi:
- Raccontami.
L’altro non se lo fa ripetere: ha bisogno di chiarire anche a se stesso le scene apparse mentre medici e infermieri si affannavano accanto al corpo dolorante, in fin di vita. Una mano ignota gli ha scritto nel cuore per cercare un bandolo, ritrovare il filo che lega le parole, che tiene insieme, miracolosamente, vita e morte.

***

E’ passato del tempo dal ricovero. L’ex compagno di ospedale di Cosimo si chiede cosa faccia di un’opera letteraria un’opera letteraria: di imbrattacarte ce ne sono tanti, soprattutto in tempi come questi, in cui computer, ipad, iphone, permettono di scrivere qualsiasi cosa in qualunque momento, e il mondo rischia di trasformarsi in un deposito mostruoso di parole cui nessuno riesce a dare un senso. Sta passeggiando lungo un viale di campagna, largo, incorniciato da due teorie di ulivi. Ai bordi della strada ci sono foglie ammucchiate secondo geometrie precise; oltre gli alberi, due barriere di legno separano il sentiero dalla campagna aperta, s’intravedono gruppi di pecore che brucano protette da un cane pastore bianco come loro. La vita non è così composta come appare in quest’angolo di mondo: del resto, lui voleva uscirne, ingoiando cinquecento grammi di Pentobarbitale; si sentiva imprigionato come i personaggi dei romanzi, inchiodato a schemi fissi da cui gli pareva impossibile sottrarsi. Solo ora ha capito che a decidere è il lettore, è lui a dipanare una trama sempre aperta, dagli esiti incerti: la ragazza dai capelli rossi, Simone Vangelis, Brice Cento, sopravvivono a condizione d’insinuarsi nelle notti di chi legge, di coinvolgerlo nell’intreccio dei destini. Ora è sicuro che a salvarlo non sono stati i medici, ma il racconto di Cosimo che arranca a fianco a lui, ancora claudicante, e custodisce una domanda rimasta sulla punta della lingua, come accade quando si è presi dai pensieri:
- Come ti chiami? Siamo quasi amici e ancora non lo so.
L’altro lo guarda sorridendo, come non faceva da tempo immemorabile:
- Mi chiamo Cesare. Volevo rimediare anch’io a una lacuna imperdonabile.
- Quale?
- Volevo dirti grazie.

FINE



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