Per le vacanze di Pasqua avevo proposto a Jole di occuparmi io di Federico, il nostro fratellastro. Era un segnale per invitarla a organizzarsi una vacanza, che Jole ha colto senza riconoscere i miei meriti. Comunque in questo momento si trova in crociera sul Don con il marito.
Lei è il tipo di donna che nemmeno prova a curarsi anche di sé stessa mentre assolve gli impegni che si è presa. È un dato di fatto che Federico, o Ottantadue, chiamatelo come volete voi, per una precisina come lei, costituisca un serio impegno più che un fratello (o fratellastro, sempre come volete voi). Così come è un fatto certo che occuparsene sia stata una scelta di Jole, io non avevo niente in contrario a tirarmelo dentro casa quando nostro padre, sei anni fa, si è risposato con quella gelosissima trans brasiliana, in fondo Ottantadue è innocuo e passa la maggior parte delle sue giornate dormendo.
Sono passata a prenderlo ieri, il giorno di Pasquetta, poco prima di cena. Ormai era solo in casa da quasi ventiquattr’ore, se avessi aspettato ancora un po’ avrei rischiato di dovermelo caricare in macchina a spalla, ma non mi sarebbe convenuto: tra noi corre una differenza di circa trenta centimetri di altezza e di una settantina di chili di peso. Sono stata fortunata, non soltanto era sveglio, ma anche di buon umore. Ridendo e scherzando, siamo arrivati a Grottini con una sola tirata di quattro ore. Ho parcheggiato di fronte all’ingresso del appartamento che affitto di solito quando c’è da portarsi dietro mio fratello, nel residence più collaudato della Penisola, vicino a una cerchia di amici di vecchia data su cui poter contare in caso di necessità. Ottantadue mi ha aiutato portando per le scale i bagagli di entrambi, poi si è seduto a osservarmi andare e venire tra la cucina-tinello e le due camere da letto e, al mio segnale, è stramazzato faccia avanti sul letto che gli avevo assegnato, completamente vestito.
Con mio fratello ho condiviso lo stesso tetto sì e no un anno e mezzo, durante l’adolescenza. Mia mamma (nonché mamma di Jole) iniziava allora ad avere le prime avvisaglie della malattia che se la sarebbe portata via. Federico, che chiamavamo ancora così, da noi era soltanto in transito prima del trasferimento definitivo a Catania, durante la concitata separazione tra mio padre, il genitore acquisito una decina di anni prima, e sua madre, una siculo-normanna che in seguito se l’è tirato su da sola.
Nei miei ricordi era un ragazzone solare, curioso e fiducioso verso il prossimo. Dopo essercelo conteso tutto il giorno, Io e Jole la sera, sdraiate sui nostri letti gemelli, non ci nascondevamo a vicenda di fantasticare su quel cucciolo biondo e dinoccolato, poco più grande di noi, che ci girava impunemente per casa e che dovevamo considerare come un fratello. Gli affibbiammo quel soprannome, Ottantadue, l’anno in cui lo perdemmo di vista, convinte che sarebbe stato per sempre. In seguito cercammo in ogni modo di mantenerci in contatto ma nostro padre fu assai reticente e ci rese la cosa impossibile. Per più di vent’anni, però, restò formalmente sposato con la sua seconda moglie e, alla morte di lei, dovette riprendersi in carico un Federico molto cambiato.
Superato lo choc iniziale, tutti ci abituammo presto alla novità. Come ho già detto, Ottantadue sostanzialmente mangia e dorme. Sogna, tantissimo, e a volte vive i suoi sogni in diretta. Te lo ritrovi attorno che riprende discorsi mai affrontati se non dentro la sua testa, ripiena di nozioni affastellate e di fascinazioni imprevedibili per fatti, persone, oggetti, che studia per giorni senza che nessuno venga mai a saperlo. Appena passa di poco il limite del consentito, basta un richiamo, seguito da un sorriso, e lui ritorna sui suoi passi come se niente fosse.
Forse non saprò mai su cosa è inciampato nel cammino, ma ormai Ottantadue è la persona che è, e mi è impossibile non volergli un gran bene.
Le persone importanti entrano ed escono dalla vita senza dare mai un grosso preavviso. Per questo voglio tenere traccia delle prossime giornate, che non avrebbero alcun significato se non glielo attribuissi io stessa. Come se fosse un gioco, con regole ferree ma non scritte, di quelli nei quali credono i bambini: osservarsi vivere nel momento stesso in cui si stia vivendo. Per vedere un senso anche lì dove, realisticamente, senso non ce n’è alcuno.
[continua]