Pubblicato da fabrizio centofanti su giugno 8, 2012
da qui
- Sì, la vedo.
- A volte basta un colore, per cambiare vita.
Che strano: il fiume è l’unica cosa sfuggita all’attenzione, come se a contare fosse solo la distesa bianca e grigia delle case, la geometria dei quartieri che si spingono fino all’orizzonte, dove il cielo si confonde con la massa scura della terra. Ti chiedi se sia sempre così, se ci accorgiamo soltanto di una parte di ciò che ci circonda, smarrendo ciò che porterebbe acqua al deserto invivibile dell’esperienza quotidiana.
- Non ricordo perché ti ho lasciato.
- Le memorie, a volte, fanno male. E’ più facile guardare da lontano, come da qui.
Ti immagini schiacciato sulla strada, la gente che accorre, telefona, prova a capire se respiri, se sei vivo. Tu pensi ad altro: uscito dal corpo, hai perso l’ansia di sapere come va a finire, la paura che ti blocca quando sta per succedere qualcosa. Da morto, ti rendi conto che il problema non era solo tuo. Anzi, ti pare che la gente sia afflitta dalla stessa malattia; non trova il coraggio di portare fino in fondo un desiderio, un sogno, un obiettivo. Comprendi che la società si edifica su una sospensione, perché le decisioni diventino appannaggio di un gruppo ristretto, invisibile, potente, e tutto si giochi nelle stanze dove in pochi stabiliscono il destino di tutti. Vorresti avvertirli: prendere per la manica la ragazza con la felpa bianca, guardarla negli occhi, dirle che non vale la pena vivere da automi; o dare una carezza al signore anziano col giubbotto giallo, sussurrargli che sarebbe ancora in tempo, che è possibile scegliere senza delegare sempre ad altri; potresti ricordarlo anche al soldato col berretto nero, impacciato di fronte alla salma disarmata, inerte, lui sempre pronto a intervenire in caso di disordini. Ma non puoi comunicare: se sei vivo, sei troppo preso dal vortice delle azioni inconcludenti; se sei morto, non ti ascolta più nessuno. Provi a cantare, forse potranno udire una musica-simbolo di verità e di libertà: ti concentri sul tono, sulle note, il sentimento da trasmettere per coinvolgere la massa anonima dei turisti di un giorno, di un fine settimana. Macché, il canto dei morti è su lunghezze d’onda che ai vivi non è dato intercettare. Come annunciare la catastrofe che incombe sulla massa che non sa più cosa significhi vivere fino in fondo? Alla fine, pensi che basterebbe convincere te stesso, metterti in guardia dall’errore che ha segnato la tua vita, giurare di non caderci più, a costo di perdere tutto, di morire. Avverti un desiderio intenso di tornare da Veronica, di mostrarle di poter girare la pagina cruciale, di non essere più l’uomo che si ferma, che non riesce a immaginare il finale di una storia. Ti senti felice, per un attimo; vuoi rendere partecipe Fofner dell’estasi che ti ha rapito nei pochi secondi in cui ti sei visto corpo senza vita sul selciato. Ti volti verso lui, per incontrarne gli occhi grandi e azzurri, in cui hai rivisto tutto il tuo passato. Ma Fofner non c’è più: è rimasta solo la macchia blu del fiume, tra l’ammasso bianco e grigio delle case, come un pezzo di cielo caduto sulla terra, per errore.