Pubblicato da fabrizio centofanti su giugno 10, 2012
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Non sai cosa ti ha preso: sai che manca poco alla fine del romanzo, avverti una smania, come quando hai lottato per raggiungere una meta e all’improvviso ti sembra che qualcosa manchi, che i conti possano tornare, ma non siano sufficienti per giustificare tanto investimento di energie. Stai orientando le vicende verso un unico punto, dove accadrà qualcosa che scioglierà ogni nodo, darà a ciascuno il suo; sai anche che nessuno prevederà la soluzione, perché in quel caso crollerebbe tutto come un castello di carte e il cammino risulterebbe inutile e frustrante. Nello stesso tempo, non vuoi accontentarti di rispettare i canoni delle scuole di scrittura, che hai sempre considerato una piaga da combattere per la loro vocazione a inaridire ogni slancio creativo. Vorresti che il lettore trovasse un luogo in cui specchiarsi, che cogliesse nelle righe lette sullo schermo, o sulla pagina, i dubbi, gli ostacoli, le disperazioni e le speranze che lo esaltano o lo affliggono ogni giorno. Senti il bisogno di rivolgerti a lui, o a lei: chiedere se viaggiando di capitolo in capitolo si senta coinvolto in una ricerca personale, in una lotta corpo a corpo con la vita, o se assista a uno spettacolo scontato, come quello di certi circhi di periferia, dove tuo padre ti portava e non riuscivi a divertirti; l’unica emozione era il timore che l’acrobata cadesse, il domatore venisse divorato dai leoni o l’elefante impazzisse e improvvisasse una carica contro il pubblico pagante. Sogni di gettare la maschera dello scrittore, di ritrovarti al posto di chi accende il computer o apre il libro, per capire se valga la pena andare avanti, se il tempo perso a scorrere le righe tutte uguali, possa tradursi nel tempo guadagnato di chi scopre un modo nuovo, più soddisfacente, di vedere se stesso e l’universo. Ti chiedi se la malattia di mettere in fila le parole sia una condanna o una liberazione dall’assedio della contingenza, dall’incubo di una realtà troppo vicina per essere letta con uno straccio di lucidità. Ti domandi se al numero venti di Rue de Berthollet si stia celebrando il funerale delle ore precipitate nell’insignificanza o se le luci blu dell’albergo, il letto sospeso a mezz’aria, il mobilio trasparente siano lo scenario in cui tenti di sfuggire al maleficio della statua di pietra, in cui i giorni, i mesi, gli anni, sono sempre identici a se stessi. Sei sepolto in eterno nella stanza o attendi fiducioso l’istante in cui la porta si aprirà come la pietra del sepolcro e sarai invaso dalla luce abbagliante del giugno parigino? Non sai risponderti: batti sui tasti, lentamente, come in cerca di un’epifania fuori stagione: ecco, le ultime quattro parole, e anche per oggi hai strappato un brandello di senso all’incombere del caos.