da qui
Da un po’ di giorni, Leopoldo ha in mente questa frase: “Se non fossi uno scrittore, vorrei essere Dio, che non ha scritto nulla”. Non sa chi l’abbia detta, e forse non l’ha detta nessuno; eppure, non sa come, se la trova sempre lì, e non riesce a liberarsene. In effetti, pensa, è curioso: pare che Gesù non abbia scritto nulla e forse non sapeva neanche scrivere. Sembra che i più grandi personaggi non abbiano vergato un rigo. Che la scrittura sia un ripiego per figure minori? Chi scrive si trascina un bagaglio di sconfitte e frustrazioni, mentre il saggio si occupa di vivere, impegno non indifferente? L’opera letteraria sarebbe un fallimento sul nascere, una resa a un livello inferiore che dovrebbe ripagare di chissà che perdita, come sembra suggerire Franco Cordelli nella denuncia del romanzo come semplice indice di prestigio sociale. Tutta la scrittura sarebbe risucchiata nello stesso vortice: il diario dell’adolescente, gli appunti dell’universitario (il che spiegherebbe gli appelli di certi professori: cercate di seguire, non scrivete!), ma anche le ricette del medico e gli appuntamenti segnati sull’agenda dalla segretaria tuttofare. Il sapiente collega, medita, ricorda: fa tutto, tranne che scrivere. Leopoldo si sente, all’improvviso, il sottoprodotto di un’attività per mentecatti, ectoplasma di un narratore deluso dalla vita che non trova di meglio che sfogarsi trasformandola in inchiostro, nella pesantezza della pagina destinata magari all’autogrill, ma più spesso alla polvere di scaffali dimenticati persino dallo straccio della colf. Sarà per questo che la prima persona è così problematica nell’arte del narrare: molto meglio declinare le responsabilità sulla terza persona, di cui non si sa nulla se non quello che è possibile intuire fra le righe, tirando a indovinare, senza prove. Leopoldo è sollevato: lui non c’entra nulla col peccato originale che segna per sempre chi decide di scrivere, fosse pure la Bibbia, o Io sono Dio, del Faletti in autogrill.