Magazine Maternità
I miei resoconti di giornate a zonzo, senza una meta precisa.
I miei paesaggi urbani.
Fossi almeno un poco brava.
Le mie mattinate: porta pupa, recupera pupa, metti a letto pupa.
E tutto quello che è in mezzo, io stralunata che mi aggiro per le strade naso in aria, puntando di quando in quando l'obiettivo sulla città che si scuote, e comincia la sua giornata.
Li riconosci, per categorie. Li inquadri: il commerciante col cellulare incollato all'orecchio che discute di merci e fatture, la signora in carriera che strampola sui tacchi con falcata aggressiva e decisa, lo studente, occhiale a montatura pesante e tracolla che gli pende sul fianco, abbigliamento volutamente trasandato. Tutti in fila sulla soglia dell'ufficio postale. Anche io.
Mi son chiesta spesso perché tutta questa fatica a raccontare Fillide così come vorrei fare da tanto, vivendoci dentro.
Ti basta una giornata in visita in un posto, ed ecco che sfoggi la tua brava sfilza di foto più o meno riuscite, più o meno significative, più o meno buone. Ma qualcuno sicuro lo trovi che ti dirà che son belle. sensazioni fugaci, di passaggio, di uno che ci si trova a passare, un giorno e poi basta.
La leggerezza di un giorno di vacanza, diverso dagli altri, del cambiamento, della vacuità, del dedicare tempo allo svago, al nuovo, del poter dire "Ci sono stato".
E invece qui: conosco molte delle sue vedute così bene da poterle identificare con un occhio bendato, in un fotogramma della durata di un milionesimo di secondo. Conosco la diversa luce che investe le facciate delle case e dei palazzi nelle diverse ore del giorno, e la qualità dei colori in estate e in inverno, con la foschia e col cielo limpido, conosco il contrasto cromatico degli intonaci gialli contro l'azzurro del cielo nelle giornate di tramontana, e lo svelarsi dei monti all'orizzonte verso est.
Conosco i lungofiume adorni di foglie secche e verdi, o solo di rami secchi. Gli argini alti che diventano improvvisamente insignificanti muriccioli quando lui è in piena.
Conosco le sensazioni, infine, di quando attraversi il Ponte di Mezzo per andare a lezione la mattina, di quando ti rifugi correndo sotto i portici delle Logge e in Borgo per ripararti dalla pioggia e non hai ombrello. Di quando in centro c'è la ressa umana e tu hai fretta e non ci passi, in bici, e devi entrare a lavoro ed è tardi e dici "Permesso permesso" ma pensi (Vaffanculo, ti sposti, vecchia?) e intanto pensi già alla scusa non richiesta per giustificare l'ennesimo ritardo.
Di quando su quegli argini ti sei seduta a bere una birra in estate, con la tua grande amica, ridere degli incontri bizzarri e guardare i topi di sotto sul fiume che raccattano avanzi di umanità, coni gelato e tramezzini smozzicati. L'ansia di un esame, studiare sulle panchine in Piazza Dante, col culo gelato e ti formicolavano le gambe. Il bar della pausa biblioteca, in quella via ci ho abitato il secondo anno che ero qui, lì ci sono stata quando cercavo casa la terza volta, con Dani.
E poi non mi stanco, no, di riempirmi gli occhi dei suoi particolari, delle sue vedute, di passare per i vicoli che conosco, per evitare il corso, perché io preferisco le strade secondarie e non essere vista, starmene un po' con me. Hasuna no: lui preferisce la gente, e fermarsi a parlare per interminabili mezz'ore, e dice che le città che interessano a me sono tutte uguali, come i paesini toscani che a me piacciono tanto, e che le mie foto pure sono tutte uguali, di archi e vicoli e finestre e cornicioni, e forse è vero.
Ma io conosco la particolarità di ogni cosa, e i diversi umori che le hanno permeate, e ricordo l'istante in cui ho scattato, e ricordo quel giorno cosa stavo facendo, se ero allegra o pensierosa, se faceva freddo o tirava vento.
Come fare a condensare tutto ciò in una sola immagine? Impossibile e riduttivo descrivere Fillide in un solo modo.
Dice il poeta che il viaggiatore che è a Fillide all'inizio si inebria di tanta ricchezza, di tanta varietà di elementi e dettagli, ma poi man mano che passa il tempo, questa varietà si confonde e scompare ai suoi occhi, e rimane solo il percorso noto, il ricordo legato a quel portico o a quella panchina.
Non è così per me, che mi sento dentro, ma un po' di lato, che faccio parte e non faccio parte di questa città, ma continuo a viverla da ospite, che ne conosco ma non ho fatto miei ancora i pregi e i difetti, sentendomi sempre una nuova venuta.
Continuo a stupirmi dei colori delle facciate, dell'armonica dissonanza dell'incontro tra antico e modernità, degrado e sviluppo, incuria e raffinatezza; e questo appena fuori dal portone del nido.
Sbircio le vite altrui, i loro intrecci, la loro varietà e peculiarità, in una cornice di fogliame dorato e rosa antico.
Mi lascio attrarre sempre dalle solite cose, dai piccoli dettagli, una persiana semiaperta, per scelta o casualità, due piccoli vasi al davanzale di un mezzanino che in pochi noteranno, forse, lassù in cima, dalle ostentazioni un po' ridicole di orgoglio di campanile, che un tempo mi avrebbero urtato, che ora mi fanno solo sorridere.
O un ormai familiare Pietro Leopoldo, che è quasi un vecchio amico di gioventù, un compagno d'armi, uno su cui sai di poter contare, che sarà sempre lì, in cima al suo piedistallo, a veder cadere e rispuntare le foglie.
Un campanile che fa capolino da dietro qualche tetto, in fondo a qualche via, salutato dalle finestre sull'attenti.
L'eleganza altisonante residua di quelle che furono le sua case-torri nobiliari, le storie che racconta ogni loro pietra, di rivalità e desiderio di prevalere, di potere e ambizione, dei secoli infine che passano su tutto e il palazzo trasformato nella sede di una banca... i potenti di oggi.
E vite, istanti sottratti di contrabbando, vergognandomi un po', come una gitante maniaca dello scatto.
Rivedermi nei gesti altrui.
Sentire l'agitazione di chi sta preparando un esame, sui gradini di quella chiesa, a me per altre ragioni tanto familiare.
Pensare ai sentimenti e i pensieri di chi aspetta, impalato, un appuntamento, di chi va sapendo dove, di chi attende solo il prossimo cliente, e intanto sfoglia una rivista.
La città condensa realtà presenti e passate. Chissà, forse anche future.
Il visitatore legge, sulla targa, che è questa la Torre dei Gualandi, la torre della fame del conte Ugolino, e ne resterà impressionato e turbato, come se questo orrore fosse lì, davanti ai suoi occhi.
Ma non c'è più la torre.
Ora una biblioteca, imponente, cinque piani di alti scaffali in legno pesante, scuro, che ti guardano con sussiego, chiedendoti cosa ci fai lì,a turbare la loro quiete, che ti sbrighi a trovare la sezione che ti riguarda e poi ti levi dai piedi alla svelta, che non hanno tempo da perdere loro, e tu che ti perdi nel dedalo di quei corridoi, di quei sotterranei, sentendoti come dentro a un romanzo gotico, come nel Nome della Rosa, smarrito tra i volumi a salire e scendere scale, pensando a chissà quali eventi hanno visto passare tra le loro mura quei sotterranei e il tempo pare essersi fermato.
Come l'orologio, fermo alle quattro meno dieci, chissà perché, magari per qualche ragione precisa, che ci faceva la battuta facile, le nostre notti in piazza a folleggiare, quando albeggiava e ripetevamo "Ma no, non sono ancora le quattro!", come a dire che fosse presto.
E sulla facciata della Scuola Normale, una signorile scalinata ti invita con garbo ad addentrarti nel tempio sacro dello Sapere.
Il duca Cosimo non mi è mai stato molto simpatico: non quanto Pietro Leopoldo almeno. Lui si atteggia un po' altezzoso come a dire che lì è tutto merito suo, e non ti guarda neanche in facci, chissà se si è accorto che il suo tempo è finito da un pezzo.
Noi su quelle scalinate, ricordo, le notti, in estate e in inverno.
La notte si accendeva un'altra vita per noi, di musica e suonatori, e danze e gente, sempre diversa, e piedi scalzi sul lastricato del luogo sacro, noi profani, che come vuole il termine, rimanevamo sulla soglia, davanti al tempio, senza entrare, e voli di nastri e torce infuocate e festa, e vino, un po' schifoso va bene, quello che c'era, nel cuore della città a riposo, senza pensare a domani.
Poi al ritorno, ripercorrere strade note, la sequenza a memoria del prossimo fotogramma: incrocio, torre, vicolo.
E se qualcosa c'è di diverso, a te non sfugge.
Non un uscio socchiuso, non una fila di bucato che allarga un sorriso sulla faccia di quel palazzo, che intanto ti strizza un occhio, a persiane chiuse.
O forse s'è azzittito di botto al mio passaggio, lasciando in sospeso le chiacchere fitte fitte che si scambiava con la casa di fronte....
C'è una città invisibile che rimane nascosta persino a me, ancora.
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