Quando vai in piazza a fare il culo ai ragazzini delle superiori, lo stai facendo per un ente morale superiore. Quando durante un arresto dai un paio di calci nelle costole a un tossico di merda, lo fai perché è un momento necessario della sua rieducazione. Quando minacci le ragazze di stuprarle con il manganello d’ordinanza, lo fai perché deve essere chiaro chi è che comanda. Quando fai finta di non guardare il collega che riempie di botte il poverocristo in cella, lo fai perché non sei un infame. Quando sputi in faccia al negro di merda che hai preso con due canne in tasca, lo fai per lavarlo. Quando strappi il piercing dalle orecchie della zecca che hai di fronte, lo fai per dargli un contegno.
Quelle riportate sono alcune frasi sfuse da un breve articolo. Non è così che sembrano ragionare molti esponenti delle forze dell’ordine? Non si ritengono, giustamente, preposti alla difesa dell’ordine costituito, che non è solo un ordine sociale e politico ma prima ancora un ordine morale, che di quello sociale e poitico è espressione e legittimazione teorica?
Perché ragionano così? Sono semplicemente degli stronzi (il che in un certo numero di casi non è da escludere, soprattutto considerando che gli stronzi abbondano ed emergono nelle categorie a cui è garantita l’impunità) o esiste anche una influenza non indifferente proveniente dall’ambiente lavorativo e dai vertici che attraverso il proprio potere decisionale plasmano tale ambiente lavorativo?
Come ha ricordato di recente Aldo Giannuli, «le cause sono nella storia stessa dei nostri corpi repressivi, mai veramente disintossicati dal ventennio fascista che, a sua volta, aveva trovato il precedente dell’epoca liberale che di liberale ebbe assai poco. E poi, anche la feroce rivalità fra carabinieri e polizia agisce da moltiplicatore di questa propensione alla violenza». I responsabili sono da ricercarsi nei politici che «danno carta bianca al loro braccio armato», nei vertici della polizia che «usano cinicamente i propri uomini per rafforzare il loro potere contrattuale nei confronti dei politici», nei quadri intermedi della polizia «che aizzano gli agenti, che li formano nello spirito del mazzieraggio irresponsabile, che li educano al disprezzo del cittadino», nei magistrati che «non hanno mai il coraggio di fare luce anche sui casi più gravi e che mandano regolarmente assolti poliziotti a carabinieri anche nel caso di omicidi, per la collusione fra le due corporazioni», nei giornalisti che «non sono capaci di una inchiesta sistematica su quello che accade nella polizia».
Un’ulteriore considerazione si deve fare rispetto alle condizioni che addirittura precedono l’ingresso nei reparti delle forze dell’ordine. In particolare, in una dettagliata analisi sul fenomeno della violenza poliziesca in Italia con attenzione soprattutto per la Polizia di Stato, Salvatore Palidda fa notare, tra le altre cose, come la selezione, l’educazione e l’addestramento degli agenti non possono essere trascurati quando si cerca di indagare la natura di una tale propensione alla violenza. In primo luogo, «da circa 15 anni il reclutamento del personale nelle polizie italiane privilegia per legge i volontari che hanno svolto servizio militare nelle missioni all’estero, cioè nei diversi teatri di guerra», a dimostrazione del processo di militarizzazione delle polizie. In secondo luogo, in occasioni di gestione dell’ordine pubblico la frammentazione dei corpi di polizia produce scivolamenti verso un’estremizzazione della violenza, come già puntualizzato da Giannuli, ed un apparente disordine per cui «il personale di ogni unità segue sempre gli ordini del proprio capo che non sempre segue quelli del comandante della piazza», con conseguenze disastrose (e il G8 di Genova è solo un esempio).
Per quanto riguarda la formazione professionale delle polizie, essa «è improntata soprattutto a una sorta di infarinatura giuridica del tutto superficiale, a qualche apprendimento tecnico e poi sempre all’apprendimento per “affiancamento” a chi ha più esperienza». Non c’è da stupirsi se questo genere di formazione generi un ambiente che «esaspera la tensione, l’aggressività, il rambismo se non addirittura il cameratismo fascista». E ancora, «perché il personale di polizia non è formato nelle scuole e università pubbliche insieme ai loro coetanei? Non sarebbe questo un momento di socializzazione forse più democratizzante di quanto lo siano i corsi nelle scuole di polizia che come raccontano tanti pare siano tenuti solo da docenti spesso di dubbia qualità accademica?»
Anche se questo discorso potrebbe continuare a lungo, quanto detto finora è già sufficiente a rispondere alla domanda iniziale: gli abusi in divisa avvengono perché alcuni tutori dell’ordine sono semplicemente degli stronzi o esistono altri responsabili che generano situazioni in cui gli abusi sono incoraggiati (e non parlo degli incentivi diretti come le promozioni ottenute dai picchiatori in divisa, né della quasi certa impunità di cui godono le forze dell’ordine)? In altre parole: un tale ambiente è dovuto alla sola presenza di mele marce o alla struttura stessa della cesta che contiene tutte le mele?
Per non andare troppo indietro nel tempo cercando i responsabili della mancata defascistizzazione dei corpi di polizia, basti sapere che la rivalità tra Carabinieri e Polizia che conduce alla progressione militare e “durista” è stata accentuata notevolmente dalla riforma dell’Arma dei Carabinieri (legge 78/2000) che le ha concesso più poteri e autonomia; che l’intoccabilità della struttura delle polizie esiste a causa di un gioco di favori tra politica e forze dell’ordine in cui la politica tutta ha sempre adottato riverenza e corteggiamento nei confronti delle gerarchie delle polizie; che l’impunità è dovuta in buona parte all’atteggiamento generale della magistratura; che le regole per la selezione e la formazione professionale sono stabilite per legge; che le strategie di addestramento sono una prassi che non viene messa in discussione; che le politiche repressive e securitarie riducono le questioni sociali essenzialmente a problemi di ordine pubblico, contribuendo a rafforzare il “potere contrattuale” delle polizie nell’interfacciarsi al cittadino e aumentando di conseguenza il rischio di abusi; che solidarizzare con le forze di polizia «senza se e senza ma» ogniqualvolta sia possibile, non mancare mai di esprimere incondizionato rispetto nei loro confronti, mai astenersi dal rivolger loro un plauso per il loro operato salvifico aumenta in tutti (anche tra i reparti) la convinzione che davvero «quando vai in piazza a fare il culo ai ragazzini delle superiori, lo stai facendo per un ente morale superiore».
Insomma, rispondetevi da soli, senza farvi accecare da chi si lascia andare ad esternazioni di vuota solidarietà.
Il problema non è soltanto che c’è chi utilizza la divisa come una seduta di psicoterapia andata male.