Presentato al Festival del Cinema di Venezia il film “Acciaio”, dall’omonimo libro di Silvia Avallone, mentre a Piombino e nella zona della Val di Cornia si cerca faticosamente un’identità, diversa dalla siderurgia.
Dalla Val di Cornia
Oggi a Campiglia Marittima, in provincia di Livorno, soffia il maestrale. E quando è maestrale da quassù si può vedere l’isola d’Elba e oltre, fino alla Corsica. Un’immensa distesa di campi con al centro la vecchia centrale dell’Enel (ora spenta), dove dopo gli uliveti, i vigneti e la piana agricola di Venturina, ci sono i grandi impianti della Lucchini con il fuoco della cokeria e il fumo dell’altoforno.
Impianti dove, negli anni d’oro, vi lavoravano diecimila, dodicimila operai, rimasti oggi poco più di tremila. In quest’autunno che si preannuncia caldo sul fronte occupazionale anche la Lucchini di Piombino (gruppo Severstal) vedrà ridurre del 20% la propria forza lavoro perché, dicono, “il settore siderurgico è in crisi e in Italia manca una politica industriale”.
Ma la Lucchini ha una storia lunga e complessa, fatta di tanti padroni che si sono succeduti negli anni fino a lasciarla, oggi, in mano alle banche con un mare di debiti e un altoforno che nel 2014 dovrà spegnersi perché “giunto a fine vita”. Una storia industriale iniziata a metà dell’800 che ancora cerca disperatamente un investitore.
Il “caso Piombino” è ben diverso dal “caso Taranto”: il polo toscano dell’acciaio, a ciclo integrato come quello pugliese, con una specializzazione nei prodotti lunghi (Lucchini) e negli acciai speciali piani (Magona), non vede lo spettro della chiusura per motivi ambientali o normativi, ma per asfissia finanziaria (Lucchini), scarsa competitività dei costi (Magona) e flessione della domanda internazionale (entrambi gli impianti).
E come Taranto, anche Piombino in passato ha conosciuto da vicino il problema del benzopirene, sostanza cancerogena che può modificare il dna umano. La legge fissa il limite a un nanogrammo per metro cubo e nel 2004 l’Arpa ne rilevò ben oltre nove per metro cubo. Ma a Piombino, dicono, “fumo non è uguale a pane” e il sindaco, insieme a sindacati e cittadini, ordinò la chiusura di una parte della cokeria.
Se lo ricordano gli abitanti, 35 mila persone che per generazioni hanno lavorato per produrre l’acciaio su cui scorrono i treni ad alta velocità italiani e che grazie al lavoro di quello stabilimento hanno costruito le proprie vite. Oggi per molti di loro solo la cassa integrazione a rotazione con la prospettiva di chiusura definitiva o il sussidio di disoccupazione (le buone uscite degli anni d’oro sono ormai un ricordo lontano). Chi invece “laggiù” non ha mai lavorato può contare sulla pensione dei genitori, 1100 euro con cui si vive almeno in tre per tutto il mese. Alla Coop (che qua si pronuncia Coppe e che è una vera istituzione) trovi le vecchine che, come in altri parti d’Italia, fanno la spesa contando gli euro alla cassa ma che qui devono anche pensare al futuro del “figliolo”, senza lavoro e spesso senza una famiglia propria.
Per ora, come alternativa all’industria pesante e al suo indotto, oltre a un tessuto imprenditoriale che stenta a decollare (troppi sono ancora legati agli anni d’oro della siderurgia e a un sistema “dopato” dagli ammortizzatori sociali), immediatamente disponibili ci sono solo le risorse ambientali.
“Dalle colline al mare, dalla natura all’ uomo”, è lo slogan che campeggia sui dépliants pubblicitari per promuovere i Parchi della Val di Cornia. Un “sistema” di sei siti – uno archeologico, uno naturalistico e gli altri di aree protette – gestito da una società mista, pubblico-privata, che fa capo per l’ ottanta per cento a un circondario costituito da cinque Comuni della zona: Piombino, il più grosso, con 35 mila abitanti; Campiglia, San Vincenzo, Suvereto e Sassetta.
La consapevolezza della necessità di riconvertirsi verso un “turismo sostenibile”, cresciuta già dalla fine degli anni ‘90, ultimamente sembra essere venuta meno. Chi scrive frequenta questa zona da vent’anni e, come altri, ha la percezione che l’industria del turismo si sia fatta prendere un po’ troppo la mano. Mi riferisco alla colata di cemento del porto turistico di San Vincenzo o alle nuove costruzioni a ridosso della collina di San Carlo sempre nel paese di San Vincenzo o, ancora, ai tanti campeggi e relative casine e casette vicine al parco della Sterpaia (una zona costiera ad alto valore ambientale a pochi chilometri da Piombino). Per non parlare poi della colonizzazione degli stabilimenti balneari presenti in quasi in tutta la zona e dei ripetuti tentativi di costruire nell’area a ridosso parco di Rimigliano, un’altra fascia costiera caratterizzata da dune, pineta e macchia mediterranea.
Guardare oltre l’acciaio – e alla mancanza di politiche industriali a livello di sistema paese – è un sacrosanto diritto consapevoli però del fatto che i grandi numeri della siderurgia e dell’industria pesante non saranno più replicabili in questa zona, così come in altre d’Italia.
Il futuro non potranno essere i mega-stabilimenti balneari, i parcheggi o i borghi commerciali ma solo una pianificazione intelligente del territorio e delle sue risorse, lontana dalle logiche del turismo di massa. A rischio l’identità di un territorio riconosciuto come unico da tedeschi, svizzeri, olandesi e francesi.
Nel frattempo a Piombino, mentre la città e i suoi abitanti diventano protagonisti delle scene del Festival del Cinema (“Acciaio” è in calendario oggi a Venezia), attendono che il Governo sblocchi i 112 milioni per la bonifica dell’area ancora asservita allo stabilimento siderurgico. E su questo tema non si sa se e quando i riflettori del Ministero dello Sviluppo Economico accenderanno le proprie luci. Luci che i nipoti degli operai del boom della siderurgia, al di là delle comparsate temporanee in un film, richiedono a gran voce: per loro il mostruoso sistema della “concertazione sociale” costruito in questi anni da azienda, sindacati, forze politiche e amministrazioni locali non avrà più risorse da elargire. E nel quartiere di Stalingrado (il quartiere operaio di Piombino), come racconta il libro di Silvia Avallone, “il massimo che puoi desiderare è una serata al pattinodromo, o avere un fratello che comanda il branco, o trovare il tuo nome scritto su una panchina”.
L’articolo è stato pubblicato sull’edizione odierna di Chicago-Blog