di Giuseppe Leuzzi. “Il 23 giugno 2013, quando era papa da tre mesi – vescovo di Roma, come preferiva dire – era in programma un solenne concerto nel’Aula Paolo V, per l’Anno della fede… Papa Francesco non si presentò al concerto, all’ultimo momento, adducendo «impegni improrogabili». Si mormorò che non volesse fare incontri impropri. Si disse che pronunciasse la frase: “«Io non sono un principe rinascimentale»”. E la conclusione è: “Se non era vera, era benissimo trovata, nel cinquecentenario del Principe”. Adriano Sofri randomizza l’attualità leggendo Machiavelli. Evita di dire il papa – un gesuita francescano, argentino – machiavellico, Ma, nel bene e nel male, ritorna con lui al Cinquecento, secolo bello e infelice, per la chiesa, e per l’Italia. Una riflessione malinconica. E un modo per “dare spessore” allo squallore. Machiavelli non avrebbe potuto dire altro, né forse meglio.
Il segretario fiorentino si può leggere come un opinionista di oggi, quello che fa l’elzeviro in prima pagina, pensoso e elegante, l’arte più accudita, anche in queste tempi di crisi della lettura, che equanime e profondo dà un colpo di qua e uno di là. L’Italia è “guasta”, cioè corrotta, e anche no, è “nata per risuscitare le cose morte”. Ma, leggendolo, è qualcosa di più. Angustiato, certo, e vendicativo. E isolato, più di un opinionista – al netto delle fedeli professoresse. Ma sempre fattuale. Non è facile: “Il principe”, che si legge in fretta, ottanta paginette, è una boxe violenta, i “Discorsi”, “L’arte della guerra”, le “Istorie”, le “Legazioni e commissarie”, le “Lettere” anche, e le commedie e facezie, sono lente e laboriose. Sofri se ne è dilettato e se ne fa accompagnare per le scorribande nell’anno del quinto centenario del “Principe”, il 2013 – o forse il 2014, o chissà questo 2015.
Un’evocazione prima affascinante ( la Fortuna, cioè la sfortuna), poi invadente. Machiavelli Sofri vede non soltanto nel papa, ma in Warren Buffett, Nazarbayev, i “figli” (Warburg, Pirelli, Sung, Assad, etc.), Michelangelo e il David, i femminicidi, le quote rosa, l’Europa vecchia, la razza rude di montagna (Ma: i tedeschi gente di montagna?), Luigi Zanzi, e i Mugabe, gli Afewerke, i Castro, i rivoluzionari dittatori, la demografia, Pol Pot, i No Tav e fra Dolcino. Come una cronaca insorgente sconnessa, su cui mette i punti, di un retroscena, un aneddoto, un accostamento. Un prontuario dell’attualità – l’evento – in chiave machiavelliana. Una riflessione in filigrana da evaso, o da scampato. Sul perché siamo come siamo.
Tutto corretto, nulla di obiettabile. Le donne, per esempio, “vincono i concorsi”. Non fosse per le trecento pagine. Da cui sempre qualcosa rimane fuori – perché, per esempio, camminiamo a due zampe. E per il bisogno di meravigliare. La Fortuna va fottuta. Se recalcitra picchiata: “È uno stupro. L’atto fondamentale della politica è uno stupro”. Che detto nell’anno dei femminicidi va bene. Ma è stupro la politica, o non la non politica, dei cronisti giudiziari, i giudici, i colonnelli dei carabinieri? Di chi semplicemente ce ne vuole privare.
Sofri non si priva neanche di un McIntosh del 1984, al cui giudizio per Machiavelli “la politica è la continuazione del sesso con altri mezzi” – mackintosh, sarà pseudonimo? E giù la storia come maschilismo acuto. Gli esempi naturalmente non mancano – gli esempi non mancano a nessuna tesi. Parigi Fine Secolo (fine Ottocento – Adriano avrebbe voluto coltivare anche un Fine Secolo Novecento, ma glielo hanno impedito), folle di perversioni come già “I promessi sposi”, Krafft-Ebing, etc. Avrebbe potuto aggiungere i sessi plurimi di Rachilde, vigorosa anticipazione dei 53, o 57, generi sessuali ora ufficialmente catalogati. Dopodiché libera le cateratte su ogni argomento.
Allo specchio
Resta, in tralice, una lettura di Machiavelli allo specchio. Della disgrazia, dell’ostracismo. Delle letture amate, dell’innamoramento tardivo, del passeggiatore solitario per i campi e i boschi. La malinconia è forte, e la lettura malgrado tutto lascia vigile. Sofri è un altro che sa “cosa vuol dire avere la vita spezzata”, non successe solo a Machiavelli. Dopodiché “vivere un tempo supplementare”. In cui mendicare un favore dagli stessi che l’avevano torturato e ostracizzato. E altrettanto “prodigo del suo”. Ugualmente “come suddito, repubblicano, come principe , monarchico”. A Machiavelli “successe nel 1512, aveva 43 anni”, che i Medici lo carcerarono, lo torturarono, lo spogliarono e non gli consentivano di “voltolare un sasso”. Sofri nel 1989 ne aveva 47, e non fu poi scarcerato. “Oggi il gioco sporco è molto più sporco e vasto”. È da dubitare, al tempo di Machiavelli era sporchissimo. Ma è comprensibile, per chi è stato utopista. Però, è vero che un tempo “si credeva alla fantasia, oggi non si crederebbe alla realtà”, l’abiezione può essere inimmaginabile.
La Principessa del titolo è Caterina Sforza. In realtà solo contessa, figlia naturale di Galeazzo Maria Visconti quando ancora non era nulla, con l’amante poi non sposata Lucrezia Landriani (questo Adriano se l’è perso: il bastardo ha una marcia in più). Una contraddizione in tema: una che si fece tre mariti – non eccezionale, tra altre incontestate vir-ago. Tupak è Tupak Shakur, piccolo Cesare Borgia del Novecento, l’uomo nuovo che fece tutto a 25 anni, compreso vendere 75 milioni di dischi, e denominarsi “Makaveli” avendo visto il film di De Niro in cui se ne parla, quando venne falciato a pistolettate, dopo essere stato vittima di una trappola dell’Fbi – come lo era stata sua madre, e tanti altri delle Black Panthers (altra traccia: l’America non sarebbe piaciuta a Machiavelli?).
La verità fa male, al freddo (Schmitt) come al mite (Sofri). Che però ha più giudizio. L’assunto di Sofri è semplice, in questa epoca giudiziaria, in cui bisogna discolparsi: lo scandalo Machiavelli non è nelle cose che dice – che tutti sanno – ma nel fatto che le dice: “Machiavelli è un traditore”, del potere, “il potere non può dire quello che fa”, e può non fare quello che dice. Con la lettura più sobria – più vera – del “Principe”, l’opera “più intrattabile” del poligrafo Machiavelli. Con un riesame, da pioniere e alfiere della controinformazione, dell’informazione stessa quale viene praticata, dilagante ma intesa non al vero ma alla spoliazione della privatezza e anzi dell’intimità. Alla riduzione dell’uomo allo stato animale? Peggio, l’animale ha un pudore, che difende.
Il quinto centenario del “Principe” non ha prodotto molte riflessioni. Ci si sarebbe aspettato il contrario, per l’impolitica, l’impasse della politica. Sarà che il trattatello è noto, non solo a Schmitt e Mussolini, come la teoria dello Stato, e gli Stati sono in crisi. Ma questa non doveva essere piuttosto una buona ragione per ragionarci sopra? No, è che non bisogna parlarne, della disintegrazione dello Stato. Della legge, dei diritti della persona. Civili, umanitari, di genere sì, ma della persona no – si veda il mercato delle nascite. Sofri ha capito di che si tratta.
Machiavelli se ne difendeva rivelandosi la notte, al chiuso. Di giorno andava all’osteria, in piazza e per i campi, a menarla come tutti. Non diceva la verità, la scriveva. Al chiudo, a beneficio dei pochi, due o tre non di più, Vettori, Guicciardini e un paio d’altri, di cui poteva fidarsi. Non per altro, perché parlavano lo stesso linguaggio. E questa è la seconda verità di Machiavelli: che non diceva la verità ma la scriveva – il “Principe” diverrà pubblico postumo. A volte non si può dire.
L’utopista Sofri riflette a lungo, a ogni evento, sul realista per eccellenza. Non è solo, succede con altri – con tutti? Le “tesi politiche sulla politica” di Machiavelli restano inconcluse. Tra il realismo di programma che porta a un impasse, o fine della politica, e il potenziale liberatorio, che equivale a un’utopia. Come se il realismo concludesse all’utopia, e non può essere.
Adriano Sodri, Machiavelli, Tupac e la Principessa, Sellerio, pp. 348 € 14