Con molto ritardo rispetto alla prima parte, ecco la seconda puntata.
Annarosa, detta Anna, era appena scesa a terra. Finalmente. Aveva perso il conto delle volte in cui aveva vomitato durante la traversata. O meglio, le traversate. Perché Anna era partita dalla Sardegna. Da Casteddu, che gli occupanti chiamavano Cagliari, città dalle piazze sventrate dagli attentati, in nave verso Palermo. Il permesso era stato difficile ottenerlo: su una nave turistica, la presenza dei sardi era malvista. Era riuscita ad ottenere la possibilità di viaggiare su quella nave solo corrompendo un responsabile delle cucine, e visto che i soldi non bastavano perché intendeva conservarne una parte per la traversata successiva non aveva trovato altro modo se non cedere alle richieste sessuali del responsabile. Non un rapporto completo, solo orale. «Ma non farti vedere in giro», le aveva raccomandato, «sta’ ferma qui e non rompere i coglioni» aveva poi intimato chiudendo la porta metallica di quel ripostiglio umido e puzzolente. Aveva provato nausea e disgusto, ma non vedeva altra via. Giunta a Palermo, aveva incontrato alcuni membri della comunità sarda in Sicilia, che le erano stati raccomandati da alcuni amici prima della partenza. Era stata aiutata fino a Porto Empedocle, dove aveva speso i soldi rimanenti per potersi imbarcare nottetempo con gli altri trecentocinquanta.
Ora, con gli stessi trecentocinquanta, Anna stava sbarcando ed erano tutti vivi per miracolo: aveva visto diverse persone svenire nel corso del viaggio per insolazione e disidratazione. Un ragazzo norvegese era rimasto in stato di incoscienza per più di un’ora prima di riprendersi. Un suo compagno di viaggio, partito con lui e altri due, era stato esposto per troppo tempo al sole e ora riportava gravi segni di ustione in diversi punti del corpo.
Christen aveva cercato più volte di immaginare come sarebbe stato quel momento, l’arrivo. Lo aveva pensato come una meritata pausa dall’ingiustizia eterna di chi subisce non solo una guerra civile e un intervento di guerra umanitaria, ma anche la mancanza della libertà di allontanarsene il più lontano possibile. Nelle poche ore di sonno lo aveva sognato, nei pochi attimi in cui poteva concedersi una pausa dalla paura della realtà circostante se lo era figurato, ne aveva fatto una meta almeno provvisoria della sua esistenza, uno spiraglio di salvezza. Ora si rendeva conto che quel momento non era ancora giunto. Lo sbarco non era come lo aveva immaginato, approdo gioioso e liberatorio ad un mondo sicuro. Era piuttosto un salto nelle fauci di un mondo ostile. Sul molo lo attendevano parecchi uomini in divisa, armati. No, questo non era un arrivo, non era la fine del suo viaggio della speranza: era la continuazione della mancanza di libertà. Li facevano scendere a terra e li smistavano secondo criteri che da solo non sarebbe mai stato capace di comprendere, perché non conosceva affatto l’arabo parlato dagli uomini in divisa né l’italiano parlato da chi aveva condiviso con lui la navigazione. Invece, qualcun altro tra gli ospiti provvisori di quell’imbarcazione conosceva sia l’arabo che l’italiano e sapevano tutti che li stavano smistando secondo la provenienza. Per motivi pratici, distinguere secondo la provenienza era comodo: le statistiche dicevano che, per esempio, i norvegesi erano quasi tutti profughi. Gli italiani teste calde. I sardi poveracci, ma vigevano controlli particolari per questioni di terrorismo internazionale. I francesi quasi tutti migranti economici, tranne i baschi che si dichiaravano rifugiati politici. E quindi, norvegesi da una parte, baschi e sardi dall’altra; francesi e italiani da questo lato, tenendo d’occhio gli italiani. E così via. Statisticamente, la provenienza tendeva ad essere legata alla condizione giuridica che i migranti si sarebbero visti riconosciuta.
La guerra civile in Norvegia era cominciata con il bombardamento di Sandnes da parte dell’esercito inviato dal governo, in risposta ad una serie di attentati terroristici organizzati dal Christelig Folke che in quella cittadina, secondo i servizi segreti, aveva il suo quartier generale ad una distanza pericolosamente vicina a Stavanger, seconda città della Norvegia nonché di gran lunga il suo più importante centro per l’industria petrolifera. Il Christelig Folke era un’organizzazione terroristica di stampo militare che rifiutava ogni tipo di integrazione culturale; contraria alla presenza di minoranze etniche e religiose sul territorio norvegese, prendeva di mira in particolar modo le popolazioni sami e kven e le comunità cristiane non ortodosse, piuttosto numerose; gli attentati erano rivolti contro chiese, sedi di partiti, uffici del governo e ambasciate straniere; i suoi aderenti usavano il Høgnorsk, la forma purista e tradizionalista della lingua scritta, prediligendolo al Bokmål, considerato una corruzione del norvegese originario. Sebbene fosse clandestino e considerato organizzazione terroristica dalla comunità internazionale, in alcune zone il Christelig Folke godeva della simpatia di una parte, minoritaria ma non trascurabile, della popolazione. Quando il governo aveva approvato l’ennesimo “Programma nazionale di gestione delle risorse petrolifere” in cui si agevolava ulteriormente lo sfruttamento del territorio da parte di aziende multinazionali straniere, era dilagato il malcontento popolare. La scintilla decisiva, quella che avrebbe aperto le danze e portato al bombardamento di Sandnes, fu la repressione brutale di una sommossa. Al malcontento per i contenuti del nuovo “Programma nazionale” si affiancò una protesta correlata: quella dei pescatori di Stavanger contro l’inquinamento delle acque costiere ad opera dell’industria petrolifera, dovuto alla mancanza di controlli adeguati e alla connivenza tra funzionari governativi e aziende multinazionali che aveva portato alla distruzione dell’ambiente costiero con conseguente decimazione del pescato. La protesta si fece accesa e violenta e fu repressa nel sangue. La repressione aggravò la situazione e la sommossa assunse in pochi giorni i toni di una rivolta in diverse città e in poche settimane quelli di una guerriglia organizzata in intere regioni. Molti obiettivi furono oggetto di attentati terroristici da parte di Christelig Folke. In alcune aree, tra cui Sandnes, Christelig Folke riuscì a ottenere il monopolio della protesta sfruttando la destabilizzazione degli equilibri politici e prese il controllo del territorio.
Qualche mese dopo erano intervenuti militarmente Senegal, Guinea e Tunisia al fianco del legittimo governo norvegese, messo in ginocchio dalla violenza terrorista. Poche settimane più tardi si erano uniti all’intervento anche Mali e Niger, che avevano inviato truppe e armi.
La chiamavano “guerra umanitaria” ma Christen aveva visto solo bombe. Che cosa le rendesse più umanitarie delle bombe del governo o di quelle dei terroristi cristiani ortodossi rimaneva per lui un mistero. C’era invece un interrogativo su cui Christen sapeva darsi una risposta: seppur non capiva la natura di quelle bombe, di certo ne comprendeva il motivo. Quasi tutti i paesi intervenuti nel conflitto norvegese erano privi di giacimenti petroliferi e dipendevano fortemente dalle risorse norvegesi, opportunamente fornite loro grazie alle politiche concilianti condotte dal governo. Quei militari stranieri difendevano l’interesse economico dei rispettivi paesi. Non erano di certo volati fino in Norvegia per difendere i diritti delle minoranze etniche e religiose, altrimenti sarebbero volati anche in Sardegna o in Catalogna, dove i diritti violati da difendere non scarseggiavano.
Christen scappava da una guerra civile, ma non faceva parte di una minoranza in pericolo. Anna era sarda: faceva parte di una minoranza, per quanto fosse assurdo sentirsi parte di una minoranza in una terra popolata in maggioranza da sardi. In effetti, la minoranza in Sardegna era costituita dai militari italiani. Anna non scappava da una guerra civile, che vede due parti contrapporsi, bensì da una guerra coloniale, che vede una parte opprimere e l’altra subire o resistere. In Sardegna non si era mai verificato un evento bellico destabilizzante: gli equilibri erano stabilmente sbilanciati.
Formalmente la Sardegna era una regione normale, una divisione amministrativa italiana come tutte le altre. Eppure le istituzioni locali erano sistematicamente scavalcate, nell’esercizio dei propri poteri, dal governo centrale in maniera più o meno diretta. Per esempio, nel consiglio regionale di Casteddu era rappresentata una costellazione di partiti indipendentisti, tra cui i maggioritari Sardigna Natzione e il Partidu Sardu Indipendentista, nonché altri partiti minori come Indipendentzia e il Partidu de sos Traballadores Sardos, di area più radicale. Le regole di assegnazione dei seggi alle elezioni che democraticamente si svolgevano come in ogni altra regione italiana attribuivano ai partiti indipendentisti una larghissima maggioranza. Tuttavia, gli organismi democraticamente eletti erano, nei fatti, esautorati del proprio potere decisionale: spesso, questioni di cruciale importanza venivano discusse e approvate in altre sedi in cui i rapporti di forza erano del tutto a sfavore dei sardi. Per esempio, la politica energetica sarda non era gestita, come formalmente previsto, dalle istituzioni sarde, perché la linea generale in materia era imposta da leggi nazionali italiane, discusse e approvate a Roma, dove i sardi erano scarsamente rappresentati, anche per effetto del rifiuto del collaborazionismo con le istituzioni italiane (detto “ascarismo”) da parte delle forze indipendentiste.
La disparità era tale che allo Stato italiano, per mantenere la propria posizione di autorità e il controllo della regione, era sufficiente minacciare l’uso della forza militare, servendosene raramente. Nonostante esistessero organizzazioni paramilitari, come l’ala armata del Partidu de sos Traballadores Sardos, che oscillava tra la legalità e la clandestinità, l’isola non viveva in uno stato di guerra. Spesso, esplosioni laceravano il centro della capitale sarda, ma si trattava di attentati simbolici ai danni di sedi istituzionali più che di strumenti di conflitto militare. Più che di uno stato di guerra si trattava di uno stato di occupazione militare.
Anna non amava gli uomini in divisa. I soprusi che quotidianamente si verificavano ai danni di persone che erano giuridicamente normali cittadini, come qualunque altro italiano, ma che avevano la sfortuna di appartenere all’etnia sarda, erano commessi dagli occupanti in divisa: insulti, maltrattamenti e discriminazioni ad opera di chi rappresentava lo Stato sovrano. Per questo motivo, Anna tollerava male la presenza di qualunque divisa: suo malgrado, la associava ad una serie di ricordi ed esperienze negative. I sardi erano discriminati ovunque, anche fuori dall’Italia. Osservando le forze schierate intorno alla barca, Anna si chiedeva se in arabo esistesse, come in italiano, una parola per riferirsi ai sardi con accezione dispregiativa e se mai si sarebbe sentita chiamare “gnomo” o con altri epiteti razzisti anche qui, dopo aver imparato almeno un po’ di arabo.
Anche Christen non trovava rassicurante la presenza di tutte quelle divise in quello che avrebbe dovuto essere un comitato di accoglienza: di certo tutte quelle armi e quei caschi, tutte quelle divise e tutti quegli uomini organizzati come se si stesse uscendo da un carcere di massima sicurezza piuttosto che da una barca lasciavano intuire un’idea parecchio insolita del concetto di “accoglienza”. Comunque, Christen aveva almeno un altro buon motivo per non nutrire simpatia per gli uomini in divisa: Christen fuggiva da una guerra. Le bombe che avevano distrutto la sua città erano state sganciate da forze armate africane in un attacco a sostegno del governo norvegese, da uomini che portavano la stessa divisa indossata ora dai militari che pattugliavano il porto. Non riusciva a sentirsi al sicuro, circondato da uomini armati. Non riusciva a nutrire rispetto per chi lo aveva reso prima uno sfollato, poi un emigrato.