di Melville Chater
Per la rivista National Geographic, febbraio 1931
Quarta parte
Link terza parte
Tirana verso il tramonto
Dall’aria fresca del mare di Durazzo, siamo tornati al caldo della capitale albanese per conoscerla da vicino. Veramente, eravamo intenzionati a fare una visita di qualche ora, per andarcene subito dopo, visto che la “battaglia” fatta per trovare un letto libero in un albergo ci aveva lasciato la sensazione di una situazione grottesca. Se non avessimo trovato un cittadino americano, che ci ha aperto la sua casa e ci ha ospitati, facendoci così finalmente provare il conforto di un bagno caldo e di un letto pulito, sicuramente ce ne saremmo andati quello stesso giorno dall’Albania. Tirana, con le sue macchine di lusso, è una città “buona” dell'Albania, in cui il tentativo e lo sforzo per arrivare al più presto ai livelli di civiltà dell'Occidente si avverte più che in ogni altro centro albanese. Lo si nota dalle strade larghe, illuminate dai neon, che contrastano con i vicoli del centro storico.
Vista della capitale del regno, Tirana. Oggi qui si trova la piazza “Scanderbeg”, vicino all'Hotel “International”. (foto: Melville Chater)
Una fila interminabile di taxi e pullman di ogni genere trasportano passeggeri eterogenei. Si vedono spesso autisti musulmani con i pantaloni larghi. Lontano da questa moltitudine che sorbisce ogni specie di bevanda, che discute dei suoi affari, l'unico muezzin della città, dall'alto del minareto della moschea, richiama i fedeli ricordando loro che è il momento della preghiera: ma la sua voce si perde come una goccia nell'oceano. Questa comunità di commercianti ancora non ha un suo equilibrio. Il suo export, che è costituito da prodotti agricoli, pelli di animali, lana, carbone e bitume, non supera il budget di 25.000 dollari all'anno. Nel contempo, il valore dell'import di zucchero e cotone arriva al doppio di questa cifra. Come si può equilibrare questo bilancio? Le montagne, ricchissime di minerali come oro, ferro, carbone, rame non sono, però, sfruttate dall’industria mineraria. I soldi che rientrano grazie agli emigranti, per la maggior parte dislocati in America, ammontano a oltre 300.000 dollari all'anno. Il paese ha bisogno dell'industria pesante, di fabbriche. Da tante persone senti dire, con una grande tristezza: “Qui non c'è lavoro! Sono stato per cinque, sei anni in America. Magari avessi la possibilità di tornare di nuovo là!”
La nuova generazione albanese vuole studiare
Questo erano alcuni dei problemi più urgenti del nuovo stato, dichiaratosi indipendente il 12 novembre 1912. Esso perse la sua indipendenza temporaneamente durante la Prima Guerra Mondiale, per riconquistarla nel 1920. Nel 1928, da repubblica si trasformò in regno. Una cosa è certa: il governo approva il desiderio di studiare della nuova generazione. Funzionano oltre seicento tra scuole primarie e scuole serali, senza parlare delle scuole tecniche, che sono state istituite perché ci lavorano ancora professori americani.
Studenti albanesi delle scuole primarie. (foto: Luigi Pellerano)
Il bisogno di studiare si vede chiaramente. Quando un dipendente statale ti ridà indietro un documento che, nonostante sia scritto nella sua lingua, non è capace di leggere, non ti puoi lamentare con nessuno, e, tuttavia, ciò non può lasciarti indifferente. Durante il nostro viaggio da Tirana a Scutari, ci è rimasta impressa la città di Kroia, con il suo castello, il suo bazar coperto e le sue colline, da cui scendevano contadini carichi di sacchi sulle spalle, i quali, dopo aver viaggiato per tutta la notte, arrivano alla mattina presto, in tempo per portare al bazar i propri prodotti. Sono gheghi cristiani, e le loro donne non hanno i volti coperti e non fa loro impressione la presenza di uomini stranieri. Al contrario, il nostro fotografo vorrebbe avere un velo sul capo per sfuggire ai loro sguardi curiosi. Alcuni filologi vogliono convincerci che il nome ghego derivi dal greco “gigas” che significa “gigante”. Ci è sembrato un ragionamento logico, quando abbiamo visto quegli uomini duri e altissimi con il fucile sulle spalle. Avevano addosso pantaloni larghi, camice bianche, sandali di pelle non lavorata e dei fez bianchi sul capo. Addosso a qualcuno di loro potevi notare la “xhoka” nera di Scanderbeg, ossia una giacca corta di lana.
La guardia reale con i vestiti di colore rosso e nero. (foto: Luigi Pellerano)
Scanderbeg, il “drago” dell'Albania
I ruderi del castello di Kroia sono il ricordo vivo di Giorgio Castriota, principe albanese, conosciuto dai turchi con il nome di Scanderbeg. All'inizio del 15º secolo, lui e i suoi tre fratelli erano prigionieri del sultano, che li usava come ostaggi per dissuadere il loro padre dall’attaccarlo. Giorgio, che era all'epoca soltanto un bambino, crebbe alla corte del sultano il quale, quando il bimbo diventò adulto, gli affidò il comando di un reparto di cavallerizze. Così diventò uno dei guerrieri più forti e più temuti dell'impero ottomano. Gli ottomani gli diedero il nome di Isacander, che significa Alessandro, in onore di Alessandro il Grande, e il titolo di bey, che significa “principe”. Il nome di Scanderbeg significa letteralmente “il principe Alessandro”. Ma nonostante ciò, nel suo cuore, come la storia dimostrerà, rimase per sempre albanese. Circa trent'anni più tardi, quando gli ottomani furono sconfitti dagli ungheresi, Scanderbeg tornò nella sua Kroia, mise in fuga il presidio turco e prese il controllo della città. Nei successivi ventiquattro anni difese con successo l'Albania dagli assalti ottomani. L'esercito ottomano era composto da almeno 200.000 uomini ben equipaggiati con cannoni e catapulte che portavano un carico esplosivo fino a 60 kg. Quando morì, all'età di 64 anni, lasciò dietro di sé una fama che non si è mai sbiadita. Il suo ricordo viene tramandato, da generazione in generazione, oralmente con ballate, canzoni e aneddoti, ma anche nei libri. Le sue opere e la sua vita sono state descritte in un libro di Longfellow. Riferimenti ad un altro condottiero albanese, Ali Pasha, li troviamo nelle pagine di “Childe Harold's pilgrimage”, di Byron, in cui lo scopo del poeta era scoprire la verità: Ali Pasha non si arrese mai al sultano, neanche in un momento di sconforto! Nonostante la sua testa venisse appesa davanti ai muri del palazzo del sovrano, le sue gesta sono rimaste indelebili nella storia.
Traduzione dall’albanese di Elton Varfi