Alcune metafore e un libro per Haiti

Creato il 06 giugno 2015 da Vfabris @FabrizioLorusso

La storia e l’attualità di Haiti possono essere riassunte da alcune metafore. Si tratta ovviamente di immagini e semplificazioni che, però, aiutano a rendere l’idea e, dopo ogni catastrofe naturale, amplificata ad libitum dalle precarie condizioni sociali, economiche e politiche del Paese, si ripropongono in tutta la loro crudezza ed efficacia. Il libro La fame di Haiti di Romina Vinci e Fabrizio Lorusso, Edizioni End,raccoglie testimonianze, reportage e diari scritti, in una prima fase, tra il 2010 e il 2012, poi rivisti e accompagnati da aggiornamenti e nuovi testi nel 2015, durante i viaggi degli autori a Porto Principe, capitale del paese caraibico.

Dopo il terremoto del 12 gennaio 2010, che ha fatto otre 250mila vittime, e nel pieno dell’emergenza per l’epidemia di colera, nella seconda metà dell’anno successivo, Haiti è stata per un po’ al centro delle cronache e dell’attenzione mediatica mondiale che poi, puntualmente, s’è diretta altrove. Le metafore che descrivono la sua situazione storica e attuale sono varie e legano idealmente le pagine de La fame di Haiti.

La Repubblica delle ONG: sono più di 10mila le organizzazioni straniere sull’isola e gestiscono ogni aspetto della vita economica e sociale, riempiono a modo loro i vuoti dello stato e della società civile, anche se allo stesso pregiudicano lo sviluppo autonomo e cosciente delle potenzialità locali. Non sempre è così, è giusto distinguere, ma senza dubbio i vizi della cooperazione internazionale nel contesto haitiano non tendono a diminuire.

Le multinazionali della solidarietà: nella “Repubblica delle ONG” i flussi di capitali dall’estero transitano dalle grosse multinazionali del settore “non profit” che arrivano a spendere fino al 60% del loro budget, ingrossato dalle donazioni della gente e dai fondi forniti da governi e agenzie internazionali, per la logistica e il personale. Il welfare state haitiano è spezzettato e incontrollabile, migliaia di operatori, alcuni dei quali con un potere negoziale e un giro d’affari superiori a quelli del governo locale, s’occupano di uno o più pezzi dell’assistenza e il coordinamento è compito arduo se non impossibile.

Gli aiuti selettivi: i fondi e le donazioni dall’estero passano dalle ONG straniere, dalle agenzie internazionali e dall’ONU mentre solo una piccola parte arriva ad associazioni locali e organizzazioni della società civile che non hanno le capacità tecniche, economiche o addirittura linguistiche per interagire con il complicato sistema degli aiuti internazionali. Ne risultano paternalismi, imposizioni, esclusioni e dipendenze che condizionano fortemente la capacità decisionale degli haitiani e delle loro istituzioni. La Commissione Interna per la Ricostruzione di Haiti nata nel 2010 è presieduta dall’ex presidente Usa Bill Clinton e dal primo ministro haitiano. Lo squilibrio di poteri è evidente e la gestione della ricostruzione e degli appalti è un grosso affare per le imprese transnazionali che se spartiscono la torta con progetti di discutibile utilità sociale.

L’industria della fame: il sistema dei sussidi americani ai propri agricoltori fa sì che i principi, spesso invocati, della “libera concorrenza” vengano accantonati e storpiati. Haiti viene inondata di prodotti agricoli dall’estero che creano dipendenza e contrabbando. Per esempio gli aiuti alimentari dopo il terremoto, sebbene abbiano alleviato le pene della popolazione nelle prime settimane del 2010, hanno finito per cannibalizzare la produzione locale che, nonostante la crisi, era rimasta intatta dato che le campagne non erano state toccati dal sisma. La concorrenza nel settore primario ad Haiti non è, dunque, né libera né leale, ma risulta viziata dal sistema degli aiuti e dei finanziamenti nei paesi produttori e col tempo ha provocato addirittura un cambiamento nella dieta e nelle abitudini alimentari degli haitiani.

“Tendopoli amara” e “isola-caserma” sono altre espressioni che descrivono la situazione di Haiti, soprattutto dopo il terremoto, quando un milione e mezzo di rifugiati e senza tetto sono stati smistati in centinaia di accampamenti e tendopoli. Le macerie invadevano la capitale. I suoi abitanti, privi di ogni servizio igienico e sanitario, si riversavano per le strade. I più fortunati riuscivano a procurarsi una tenda o un telone di plastico sotto cui proteggere se stessi e i membri della famiglia sopravvissuti al sisma. Gli altri dormivano sui marciapiedi e tra le macerie e venivano lentamente incorporati alla vita negli accampamenti allestiti dal governo, dall’ONU, dalla “comunità internazionale” e dai governi di vari paesi. Ancora oggi decine migliaia di persone dormono nelle tendopoli, anche se in cinque anni il loro numero è sceso costantemente. Il terremoto del 2010 è stato utilizzato come giustificazione per una militarizzazione dell’isola da parte di forze straniere, in primo luogo statunitensi, anche se dagli anni novanta si susseguono le missioni militari internazionali con funzioni sia di difesa che di polizia. L’esercito è stato soppresso e la polizia nazionale è corrotta e inefficiente. Altri motivi per legittimare la “tutela” straniera. Oggi la Minustah, la Missione Onu per la Stabilizzazione attiva da undici anni, ha perso credibilità e viene vista da una parte della popolazione come un’armata di invasori.

In questo contesto ogni sferzata della natura, un uragano come quello del 2008 o il terremoto del 2010, si trasforma in una catastrofe, in una crisi umanitaria di proporzioni gigantesche, amplificata dalla corruzione e dal paternalismo. Sono passati cinque anni dal terremoto che ha devastato la capitale di Haiti, Port-au-Prince. Le immagini televisive della catastrofe hanno fatto il giro del mondo nei primi mesi del 2010, ma poi la tragedia haitiana è caduta nell’oblio. Furono oltre 250.000 i morti, un milione e mezzo i senza tetto e centinaia le tendopoli allestite dopo il sisma. Alla fine di quell’anno scoppiò anche un’epidemia di colera che fino ad ora ha fatto 9.000 vittime, mentre sono più di 700.000 le persone contagiate. Il virus, che era scomparso nel paese da almeno centocinquant’anni, vi è stato reintrodotto dalle truppe nepalesi in forza alla missione dei Caschi blu dell’Onu, la Minustah (Mission des Nations Unies pour la Stabilisation en Haiti). La comunità ha stanziato circa undici miliardi di dollari, ma pochi sono stati i risultati concreti per la vita della popolazione. Sono stati vani gli sforzi per la ricostruzione che, ancora oggi, langue ed è diventata una ghiotta occasione per le multinazionali impegnate a gareggiare per gli appalti. Gli aiuti alimentari dall’estero cannibalizzano la produzione locale e i programmi di cooperazione, malgrado le buone intenzioni, finiscono spesso per creare dipendenza e degenerare nel paternalismo. Per questo le macerie di Haiti restano lì, intatte e dolorose, e a ricordarcele rimane anche questo diario-reportage, che ripercorre gli ultimi cinque anni, dai mesi successivi al sisma all’attuale situazione.

Scavare tra le macerie. Raccontare il terremoto. Descrivere la tragedia. Vivere e scrivere ai tempi del colera. Capire una cultura diversa, che non è del tutto latinoamericana, ma nemmeno africana. Che non è solo caraibica, francesizzata e americanizzata, ma anche creola, autoctona e circondata dal mondo ispanofono. Osservare e ascoltare l’ingiustizia, la speranza, la dignità, la religione, la politica, da dentro e da fuori. Specchiarsi nel riflesso della prima isola scoperta da Colombo, ai margini dell’estremo Occidente, e sentire che Haiti è molto più che una crepa aperta nella terra, più che un bimbo affamato, un soldato mercenario, il passaggio di una crociera per ricconi e più che un mare di povertà e violenza. Superare lo stereotipo, colmare l’abisso dell’indifferenza. Per tutti questi motivi è nata l’idea di conoscere una realtà così difficile e in seguito di fissare l’esperienza vissuta scrivendo un diario, un testo che raccontasse vicende, personaggi e quartieri visti da occhi attenti e allo stesso tempo straniati, occhi e penne che ricordano in silenzio, a lume di candela, e scrivono la sera prima di coricarsi tra le macerie.

15 giugno: prossima presentazione del libro LA FAME DI HAITI (link evento Facebook)

Di Fabrizio Lorusso da Huffington Post


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