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Alessandro Cartoni, Io sono la nemesi

Creato il 13 gennaio 2011 da Fabry2010

Alessandro Cartoni, Io sono la nemesi

di Giorgio Morale

Siete in macchina a finestrini aperti, tu, tua moglie e tua figlia, davanti alla Riviera Adriatica”.

Padre, madre, figlia, auto, spiaggia: è il quadro della tipica famiglia italiana immortalata dalla commedia italiana nella serie di film dedicati alle vacanze al mare, dai recentissimi andando indietro fino a quelli degli anni Sessanta, quando col boom economico esplodeva la mania delle vacanze e lo sfoggio dei segni del benessere.

Così inizia il racconto Io sono la nemesi, che dà il nome alla raccolta di tre racconti di Alessandro Cartoni edita di recente dall’editore Perrone. Che poi continua:

“La distesa del mare è verdognola, con una striscia di colore beige che solca longitudinalmente le onde a dieci metri dalla riva…
– Cos’è quella cosa color cacarella? Chiede Sibilla, tua figlia…
Sibilla ti ha guardato contrariata e non parla, poi avanza di qualche passo sulla riva, azzarda un’entrata riluttante in acqua infine si ritrae inorridita.
– Io qui il bagno non lo faccio…”

A proposito di boom e anni Sessanta, la memoria va a Marcovaldo deluso nella sua ricerca della natura in città. Marcovaldo con una memoria della natura ancora viva per la sua condizione di neoimmigrato dalla campagna alla città e pronto a dare le più improbabili giustificazioni alla delusione per la quale non ha occhi; e che ha dalla sua il rispetto della moglie e la complicità dei figli per i quali rappresenta ancora il babbo autorevole.

Qui abbiamo un Marcovaldo della prima decade degli anni 2000 afflitto da ben più gravi paturnie in una società disanimata e senza padre, narcisistica e farsesca, in cui “genitori sempre più imbelli, zuccherosi e rincoglioniti… cominciano a imitare i figli”, mentre i figli diventano “sempre più tirannici, autonomi e violenti” e “sono i primi a solidarizzare con il nemico” in nome del consumismo e del divertimento. E non siamo in città ma in quella che dovrebbe essere la natura incontaminata e invece è una propaggine della città.

Così la soluzione a questo cattivo avvio della vacanza arriva con la domanda della figlia: “C’è la piscina al Village vero?”. La salvezza normale è cercata nel ritorno alla città, nella colonizzazione della natura da parte della città ovvero nella riproduzione della natura con i mezzi della città. Difatti nel Village valgono le regole e i ritmi della produzione: per guarire dallo stress della civiltà occorre socializzare, fare moto, avere la mise adeguata, seguire le attività programmate, i tornei di bocce molto agguerriti, un’animazione soft, diurna e notturna, gli aperitivi, le feste simili a dei sabba, i concorsi a premi.

Man mano che ci inoltriamo nel racconto assistiamo a una sorta di viaggio agli inferi. Già nell’incipit è stato evocato il nome di Dante (“L’estate è una palla infuocata… Ecco un’idea dantesca”). La spiaggia, il Lido, la piscina, il chiosco, il lago sono i vari cerchi del Village-inferno, con l’avvocato Costante a fare da guida nel cerchio più fondo, quello del tradimento.

Come nell’inferno sartriano, la pena è essere continuamente esposti agli altri, sotto i riflettori: spettatori e attori insieme, in questo mondo fatto “società dello spettacolo”, alimentando l’uno la frenesia e il coinvolgimento dell’altro, in un dionisismo programmato privato di ogni potenziale trasgressivo. Il massimo è essere sul palco:

“E’ il palco il centro dell’evento per cui tutti si accalcano lì sotto, c’è un magma indistinto di corpi, culi, bacini che si dimenano al ritmo ossessivo della musica, l’odore di sudore si mescola a quello delle creme solari in un coacervo ributtante che fa pensare ad un enorme camion di frutta andato a male…”.

Questo vale per tutti, ma non per il protagonista-narratore, quello che narra in seconda persona rivolgendosi a un Tu, in un continuo dialogo con se stesso che dice la sua chiusura e la sua alterità-opposizione alla società. “Negare non risolve, solo esserci conta” è l’imperativo che gli viene trasmesso dal dottor Salviati, che è la voce della salute e dell’integrazione.

L’ironia non è il forte del personaggio, l’ironia richiederebbe uno spirito leggero, un sorvolare sulle cose; ma la vita non possiede “questa immensa leggerezza”, allora nella sua rappresentazione prevale il sarcasmo di un giudizio senza appello di fronte a scene “da basso impero”.

Queste caratteristiche sono comuni ai protagonisti dei tre racconti, in realtà lo stesso personaggio declinato in situazioni differenti. Il Tu di Io sono la nemesi è un misantropo paranoico e sociopatico; l’Io protagonista del primo racconto, Un dolore qualsiasi, è “spezzato e disperso”; Pietro dell’ultimo racconto, Cognati, ha una scorta di ansiolitici, antidepressivi, calmanti, “testimonianza delle sue crisi di due anni prima”.

La genealogia di questo personaggio “superfluo, del tutto gratuito, ingiustificabile” ci riporta all’antieroe del romanzo del Novecento, dall’inetto allo straniero. Il Tu di Io sono la nemesi si definisce “un esiliato”, per Pietro di Cognati nel ritorno al paese nataleabitanti, scorci, luoghi che un tempo avevano significato qualcosa… adesso diventavano quello che erano sempre stati: presenze sconosciute… oggetti distanti” e lui è “estraneo al resto che lo circondava”. Si tratta di una estraneità che ha connotati sociali e culturali più che metafisici. E’ diventato “irriconoscibile” un mondo in cui domina la tv con “le voci estranee degli speaker, i messaggi pubblicitari pieni di corpi che vorticano e ammaliano, le false gang che digrignano i denti e mostrano gesti leggendari...”, un mondo che è “una location europea dell’impero americano, coi suoi ritmi, le sue abitudini, la sua leggerezza da yankee, e gli innumerevoli simboli del successo economico o sessuale”.

Richiama Lo straniero e la temperie esistenzialista del secondo dopoguerra anche una sorta di fenomenologia della vita quotidiana che fa da sfondo a tutti e tre i racconti, l’analisi della distanza che c’è tra l’io e le cose, e in particolare l’affidarsi dell’Io protagonista del primo racconto alla casualità per trovare un “varco” che possa dare una svolta alla propria vita. Ma lo stesso caso che gli aveva indicato una via d’uscita gli fa commettere un errore fatale che gliela nega.

Appaiono degli spiragli in questo mondo chiuso e cupo, riprodotto nei microcosmi del Village e dei luoghi di lavoro? Qualche presentimento di liberazione è evocato nel temporale che porta via il caldo infernale di Io sono la nemesi e nella pioggia desiderata anche dal Pietro di Cognati. Poi solo qualche accenno: la voglia di “tagliare con tutto”, l’evasione in un bagno sott’acqua in compagnia dei “pesci silenziosi e saggi” o in un’illusione di esotismo (“Ti viene in mente la scena dell’arrivo della nave alla terra primigenia”) o in uno scorcio “selvaggio e impervio che rassicura” oppure nel ricordo dell’infanzia ormai irraggiungibile, “le cose di un tempo”, che ricorre in tutti i racconti; o la salvezza nel mondo interiore, “la terra preziosa, ed è lì che vorresti rimanere per sempre”: che è dove la soluzione si congiunge con il male.

La conclusione dei primi due racconti, il primo con il fallimento e il secondo con la consolazione di una una truce nemesi, è il trionfo dell’humor nero, a coronamento di una narrazione (“a metà tra il noir e il racconto di costume” come recita la nota in quarta di copertina) condotta con lucidità e una scrittura colta, tesa e asciutta. L’ultimo racconto, più complesso nella struttura, propone il caso di una tenerezza altrettanto paradossale. La palingenesi è ancora lontana.



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