All’esterno sembra la sede di una polizia segreta. Il palazzo ha muri spessi , finestre piccole e telecamere ad ogni angolo. L’unica scritta che identifica come il quartier generale di Facebook è piccola e defilata.
Per entrare nella sede del social network è obbligatorio firmare un patto di riservatezza che copre qualsiasi informazione raccolta durante la visita.
Entrati dentro sembra un dormitorio universitario. I cervelloni che gestiscono il flusso d’informazioni che 500 milioni di persone ogni giorno scaricano nei suoi server lavorano in un grande loft.
C’è un monopattino e diverse biciclette nei percorsi. E’ presente una grande parete bianca piena di scritte e scarabocchi. Da una stanza arrivano delle grida concitate : è in corso una sfida con i videogiochi.
Fra i 1400 dipendenti è difficile incontrarne uno con i capelli bianchi e le T shirt sono più di moda delle giacche.
D’altronde Mark Zuckerberg, il 26 enne fondatore della compagnia valutata 25 milioni di dollari , non ha mai fatto segreto di preferire le infradito alle scarpe.
Appesi alle pareti ci sono tanti disegni ispirati ad un quadro di Magritte di un uomo con la bombetta e una mela che gli nasconde il viso.
Nel grande spazio comune non esistono uffici privati , ma solo sale riunioni con pareti trasparenti e nomi ispirati a gruppi musicali ( come i Wham!) o a film culto ( come Star Wars).
“Facebook è basato sulla condivisione e questo si riflette anche nell’ambiente in cui lavoriamo” spiega Elisabeth Lider , addetta stampa.
Neanche Zuckerberg ha una stanza personale. Passa molto suo tempo fra una riunione all’altra. Ogni volta che il sito sta per lanciare una funzione , si mette in piedi in mezzo alla sala e suona un grande gong di metallo. Quando è impegnato a programmare , siede a una scrivania in mezzo alle altre , identica a quelle dei suoi colleghi : stessa sedia e stesso schermo a 28 pollici collegato a un computer portatile.
Le dita che battono sulle tastiere riempiono l’ufficio con un ronzio costante. Molti ragazzi, con un portatile sottobraccio, si spostano da una scrivania all’altra. A luglio il sito ha raggiunto i 500 milioni d’iscritti.
Se a ogni utente fosse assegnata una cittadinanza virtuale , Facebook sarebbe la terza nazione del mondo.
“Il traguardo dei 500 milioni è stato importante” dice Naomi Gleit , responsabile della divisione Crescita e Sviluppo “Ora però siamo concentrati ad arrivare ad un miliardo”.
Cinque anni fa Gleit è stata la prima donna assunta da Facebook , quando c’erano solo 15 uomini e il sito contava un milione d’iscritti “I miei colleghi erano un branco di nerd ventenni e passavano le notti in ufficio a risolvere rebus informatici mangiando pizza e bevendo Red Bull”.
Ora la proporzione fra sessi se è riequilibrata e l’età media si avvicina più ai 30 anni , ma l’entusiasmo al lavoro non è cambiato.
Una parte di soffitti è lasciata vuota , con tubi e spazzature che escono, per far sembrare un laboratorio di sede. A dare il benvenuto ai visitatori c’è un lungo bancone che ospita tecnici informatici pronti a risolvere i problemi delle apparecchiature dei dipendenti.
Gli ingegneri hanno l’abitudine di organizzare hackathon notturni , riunioni informali per maghi informatici che si ritrovano per sviluppare nuove idee. I partecipanti non sono ricompensati dall’azienda per questi sforzi e nessuno ai vertici li spinge a farli.
“Basta la prospettiva di creare una funzione che potrebbe essere usata da mezzo miliardo di persone a motivarci” sottolinea Gleit.
Ora il problema del social network sono i fantasmi degli utenti deceduti. A volte il server di Facebook consiglia ai suoi utenti di ricontattare un amico senza sapere che questo nel frattempo è mancato. Se nessuno avverte l’azienda del decesso , infatti, il profilo della persona rimane attivo.
Gleit sta cercando una soluzione con un software in grado di segnalare quando sulla bacheca dell’utente appaiono scritte come “riposa in pace” o “non ti scorderò”.
La soluzione sta generando una cattiva pubblicità. E’ solo un piccolo ostacolo nell’espansione di Facebook che però evidenzia la precarietà del social network.
“I miei genitori non capiscono che non sarò soddisfatta fino a quando tutti non avranno Facebook nel mondo “ termina Gleit
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