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All’ombra dei giganti – puntata n.5

Creato il 04 febbraio 2014 da Rivista Fralerighe @RivFralerighe

Eccoci di nuovo, miei cari.
Oramai ci abbiamo preso gusto. Come farne a meno? Nulla potrebbe essere altrettanto piacevole dell’andar spensierati a saccheggiar le sontuose dimore dei grandi.
Oggi, signore e signori, ci tocca un passaggio obbligato. Eccoci di fronte ai cancelli della casa di Lord Jeffery Deaver. Con lui siamo di fronte a un indiscusso maestro. Grazie ai suoi capolavori di fama mondiale si è meritato tutta la nostra attenzione. Non ci tireremo indietro. Armati del nostro proverbiale coraggio e, senza alcun riguardo per tanto splendore, ci tufferemo nel primo capitolo di un suo famoso romanzo del 1999: la Lacrima del Diavolo.foto1 jd

Tutto quello che ci interessa si trova all’ingresso: le prime sei pagine. Semplici, dirette, potentissime, nelle quali Deaver ci mette subito tra le braccia del suo personaggio principale: il Becchino, il serial killer. Queste prime pagine sono una preziosa lezione di maestria, costruite facendo ricorso a trovate narrative assai frequenti nel genere nel quale stiamo affinando i nostri sensi. Ma non fatevi ingannare: un vero maestro sa compiere miracoli con gli ingredienti più semplici.
Deaver intende incollarci alle sue pagine sfoderando fin da subito le sue armi migliori. Piazza (e spiazza) il lettore nel pieno dell’azione. Confonde la sua percezione con informazioni provenienti da differenti dimensioni interpretative. Lo investe con un ritmo d’azione mozzafiato. Condisce sapientemente follia estrema con disarmante normalità.
L’utilizzo degli standard narrativi, infatti, non significa risultare banali o scontati. Occorre saperli dosare con sicurezza, conoscendone a fondo le regole e i tranelli. Vediamo, allora, come ci riesce il nostro caro Deaver.

Fin dall’incipit, ci regala il punto di vista del suo assassino nel mezzo di uno dei suoi più efferati omicidi. Ascoltiamo il suo sconnesso flusso di coscienza. Vediamo quello che lui vede. L’effetto è lo smarrimento puro, non sappiamo cosa c’è stato prima e cosa avverrà dopo. L’assassino, al contrario, lo sa. Lo scrittore pure. Noi no. Siamo scaraventati nel suo universo senza alcuna preparazione. Gettati nelle strade di Washington, in una fredda sera di dicembre. L’autore dà del tu al lettore. Lo farà solo qui, all’inizio. Gli spiega che il suo assassino è bianco. No, è nero, anzi è giallo. Talvolta verde. Per funzionare, per rimanere un’ombra, deve essere un soggetto a prova di profilo psicologico. È invisibile, si mescola alla folla, usa la metropolitana, entra in un centro commerciale con la borsa della spesa, e nessuno si accorge di lui.
Assomiglia a te, assomiglia a me ripete più volte la voce narrante.
Il Becchino, poi, è accompagnato da un suono, un click, che si ripete di continuo e scandisce il tempo dei suoi (e dei nostri) pensieri. Non sappiamo di cosa si tratti, non ancora. L’assassino è un soggetto talmente folle, che, nell’orrore che sta per compiere, non si nega pensieri di disarmante normalità: guarda le decorazioni natalizie, pensa a sua moglie che pianta fiori, ritorna al giorno in cui loro due sono stati al museo. A un certo punto, avrebbe addirittura voglia di una bella minestra. Ma continua a camminare in mezzo alla gente, incrocia famiglie, bambini. Li vede, ma non li guarda. E così, fedele al suo programma, in cima alle scale del centro commerciale scaricherà il caricatore da cento proiettili del suo fucile calibro 22 sulla folla inerme. Tirerà a caso, senza guardare. Alla fine, se ne andrà muovendo semplicemente qualche passo tra la gente terrorizzata e cieca. Scompare. Buffo, penserà. Buffo che nessuno si accorga mai di lui.

Ma la realtà di fronte alla quale ci troviamo è ancora più complicata di così. A sovrapporsi al duplice velo delle ore nelle quali la gente di Washington si prepara alle feste di fine anno, e dell’universo nero del misterioso Becchino, c’è un’altra ombra. È l’uomo che gli dice le cose, che spiega al Becchino cosa e come farlo. Che lo gratifica dicendogli che lui è il migliore, che lui non sbaglia mai. Questo rende più complessa e affascinante la figura dell’assassino, e disorienta ancor di più il lettore, aumentando il suo desidero di scoperta. Ma Deaver ci permette anche di incontrare questa sua nuova ombra, di conoscerne il nome e il cognome, di sentirne la voce, di sapere persino quanto è alto. È lui il burattinaio. È lui che ha pianificato tutto. È lui a muovere la prima pedina in questa complessa partita di scacchi.
Ci viene rivelata anche la ragione per cui fa tutto questo, quale sarà la ricompensa per le stragi che sta suggerendo al Becchino: soldi, un mucchio di soldi. È questo che vuole. Per ottenerli ha scritto una lettera che recapita (sempre nel primo capitolo) al Municipio, con cui chiede la somma grazie alla quale fermerà il Becchino. La lettera, poi, è un piccolo gioiello. È diretta al sindaco della città, composta in carattere script, ma scritta come se il mittente fosse una persona illetterata se non uno straniero. Dodici righe colme di errori grammaticali e lessicali. Tra di esse anche un segno misterioso: sei croci sbarrate. E, colpo di genio, al posto dei puntini sulle i, tante lacrime (del diavolo?).

Tutto qui? Almeno così vuol farci credere Deaver. Toccherà a noi scoprire se non ci sarà riservato qualche altro colpo di scena. Chissà che altri oscure figure non si nascondano tra i cadaveri che il Becchino continua a lasciare lungo il suo cammino.
Inutile tentare di scendere dal treno in corsa, gli attori principali sono ormai saliti sul palco, lo spettacolo non può più essere interrotto. La prossima mossa tocca a noi, miei cari.

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Samuel Giorgi



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