da qui
Era circa quest’ora quando ti ho sentito tossire in modo innaturale. Mi hai detto che non era nulla. Hai cominciato a stare peggio e ho chiamato il medico, Francesco; continuavi a dire che non c’erano problemi, ma ho intuito che, a quattr’occhi, gli confidavi la gravità della questione. Non volevi preoccuparmi, come sempre; anche in ospedale, hai continuato a dire che dovevo andare a celebrare, che la gente aspettava; non mi sarei mosso neanche se fosse arrivato il maresciallo Coppola coi carabinieri. Dopo una notte in bianco, ormai sembrava fatta: preso per i capelli; vuoi vedere che ce la facciamo anche stavolta? Ci vuole un anno sabbatico, devi riposare; no, rispondevi, basterà molto meno; avresti ricominciato appena uscito. Andavo e venivo, tra reparto e chiesa, finché l’infermiera, una mattina maledetta, mi ha comunicato che non andava affatto bene. Cercavo di capire cosa fosse; ti hanno portato fuori in coma, con la maschera a ossigeno. Il 30 dicembre mi ha telefonato tua sorella: Mario è morto. Col lenzuolo per cappuccio, sembravi Abramo alle querce di Mamre. Il sole dell’assurdo batteva sui nostri cuori silenziosi. Non mi sono più ripreso dal silenzio: ancora oggi, aspetto che vengano a portarmi una notizia. Mentre starò seduto all’ingresso della chiesa, nell’ora più calda del giorno, alzerò gli occhi e vedrò tre uomini in piedi, avanti a me. Correrò loro incontro e mi prostrerò a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo”.