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“Amici”: da Matteo Renzi, a Giovanni Allevi ad Antonello Venditti. Sul social and intellectual gap di una generazione. E su Pierangelo Bertoli, kerouachiano.

Creato il 05 maggio 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

«Canterò le mie canzoni per la strada
ed affronterò la vita a muso duro
un guerriero senza patria e senza spada
con un piede nel passato
e lo sguardo dritto e aperto nel futuro. »

(da A muso duro di Pierangelo Bertoli)

Pierangelo_Bertoli
di Rina Brundu. Straordinaria performance, ieri sera, ad Amici di Maria De Filippi del giovane pianista e direttore d’orchestra Giovanni Allevi. Alla maniera di Matteo Renzi prima e di Aldo Cazzullo poi, si è infatti esibito in una curiosa prolusione al programma; una introduzione tesa a presentare la sua storia di enfant prodige della musica classica contemporanea, come forse direbbe lui, e i suoi privati patemi per farsi accettare come tale dalla critica cattiva e dalla cattiva critica. A dirla tutta, più che di prolusione si è trattato di una vera e propria interpretazione, una parte recitata, insomma; meglio ancora, per citare Oscar Wilde, Allevi ha imitato le ragioni dell’artista più di quanto l’arte (la sua?) non imiti la vita. Occorre dargli atto però che la prova di ieri è riuscita: sdoganato Oscar Wilde nel salotto nazional-popolare italico per eccellenza, la prossima performance che attendiamo tutti con una certa curiosità sarà una sorta di metamorfosi kafkiana live e post-consigli per gli acquisti. Il processo non sarà possibile invece, per ovvie ragioni.

Ma l’intellectual commitment della serata non è finito lì. Bisogna scriverlo, vedere Antonello Venditti e Patty Pravo entrare in uno studio televisivo fa sempre un certo effetto. La differenza tra Antonello e Giovanni è che il primo il suo intellectual commitment pare ce l’abbia scritto a fuoco sulla pelle. Antonello è anti-wildiano, non ha necessità di imitare né l’arte né le grandi ragioni dell’artista perché l’arte è lui. La fa lui. Una caratteristica questa di tutti i grandi cantautori italiani, quelli che hanno segnato un’epoca e portato tra le rime delle loro poesie, che sono la nostra grande letteratura degli ultimi 50 anni, le importanti questioni sociali e intellettuali della loro epoca. Sotto questo punto di vista, tra i tanti, fanno ancora venire la pelle d’oca i versi del grandissimo Pierangelo Bertoli nella sua A muso duro (1979) “Canterò le mie canzoni per la strada ed affronterò la vita a muso duro, un guerriero senza patria e senza spada, con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro”.

Un manifesto d’intenti praticamente. Per una intera generazione. E dunque kerouachiano nella sua essenza. Un manifesto anche sorprendente per certi versi, dato che noi italici non siamo una nazione di eroi votati alla ribellione sciale o all’emancipazione intellettuale. Ma se la generazione dei Venditti e dei Bertoli quel sogno, legittimo, come sono legittime tutte le pulsioni-positive dei giovani, lo hanno in qualche maniera vissuto, le generazioni digitali non lo hanno mai neppure carezzato. Colpiva dunque, sempre ieri sera, in un consesso artistico pur imbottito di grande talento, l’impressionante social and intellectual divide che si indovinava tra i “ragazzi di Amici” e quei loro ospiti, quei loro padri nobili; un gap che, in automatico, li segregava in universi paralleli; un gap importante, un gap che alla maniera di un digital-divide sui generis, una-tantum – nell’epoca della politica-addomesticata alla necessità contingente, del politically-correct a tutti-i-costi, della disperazione socio-elettronica – invita, paradossalmente, a tenere lo sguardo dritto e aperto sul passato. Per imparare. Perché sembrerebbe ce ne sia bisogno: ora più che mai!

Featured image, Pierangelo Bertoli, fonte Wikipedia.

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