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ANATHEMA @Klub Studio, Cracovia, 26.10.2014

Creato il 11 novembre 2014 da Cicciorusso

anathema

Metto subito in chiaro una cosa: sono stato un fan terminale, viscerale della band di Liverpool fin dai tempi dello stupendo ep Pentecost III. Dopo Judgement li mollai per davvero. Nel senso che per più di un decennio mi rifiutai di seguirli, in quanto realmente inorridito dalla svolta, che allora consideravo “fighetta”, di una band che, oggi come oggi, rinnega un passato in cui un caposaldo come The Silent Enigma (vetta MAI più raggiungibile) vide la luce. C’è una tradizione che viene perpetuata da qualche decennio, secondo me. Quella di un suono elegante, decadente e in un certo modo anche sperimentale. Un suono che e’ intriso di poetica romantica e dolente. Il capostipite fu, negli anni ottanta, l’immenso Into the Pandemonium dei Celtic Frost. Oggi potremmo, forse, prendere i Triptykon come esempio, in quanto naturale continuazione del suono dei CF. Ma nel decennio sucessivo agli eighties ancora non si era udita una prova dello stesso livello di quella degli svizzeri, nonostante i vari capolavori della scena inglese (e tutti sanno a quali band mi riferisco). Fino al’estate del 1995.

Chi scrive, ai tempi un giovane sbarbatello di 14 anni, tramite Headbanger’s Ball versione UK, aveva con curiosità seguito l’evoluzione della band di Serenades, che dopo Pentecost era chiamata ad un salto di qualità. La prova era rappresentata dal pezzo scelto per la realizzazione del videoclip, title track dell’imminente uscita discografica. Per l’appunto The Silent Enigma. L’impatto iniziale fu strano. La giudicai dispersiva e veramente diversa da quanto proposto in precedenza. Sara’ stata l’assenza di Darren White? Il buon Darren era una personalità non da poco. Tra l’altro credo di essere anche uno dei pochi fan del suo progetto The Blood Divine, che trovavo molto interessante. Di sicuro quello della “prima ora” della band del Merseyside era un suono più diretto, più tombale e meno etereo e raffinato. Ma quando, qualche settimana dopo ,ebbi modo di acquistare The Silent Enigma rimasi letteralmente folgorato. Ci misi qualche ascolto per entrare appieno nell’atmosfera giusta ma da allora è ancora un’emozione grandissima ascoltare pezzi come Alone o A Dying Wish.

Questa introduzione è necessaria per far capire come ogni passo successivo commesso da questa band avrebbe dovuto, inevitabilmente, scontrarsi con un livello di ispirazione che capita poche volte, se non una sola, nella carriera artistica di un gruppo. Ora, sono consapevole che gli illustri colleghi di MS tengono in grande considerazione, e non senza motivo, album come We’re Here Because We’re Here o il bellissimo Weather Systems, che ha fatto emozionare pure me. Il mio difetto, da recensore di questa prova sul palco, sta nel fatto che ho avuto davvero poco tempo per acclimatarmi nella proposta musicale dei “nuovi” Anathema. Consapevole della figura da talebano che sto facendo in questo momento (o se preferite, da proverbiale “ultimo soldato giapponese nascosto nella giungla”), vi dico che fu proprio Weather Systems a riportarmi sulla loro via. Gli ascolti attenti degli album precedenti, cui prima avevo dedicato solo attenzioni assai sporadiche, seguirono questo piccolo grande capolavoro uscito appena due anni fa. Ne consegue che la mia esperienza e familiarità col repertorio proposto dai nostri nelle esibizioni live non sia proprio alta. Quindi vi chiedo di perdonarmi in anticipo e considerare la mia opinione come quella di un orecchio “esterno”, che si approccia alla dimensione live di una band da cui si era separato anni prima e che ricordava diversa, proprio come una ex fidanzata che si rincontra per caso dopo 10 anni e passa.

lee_douglas
Bisogna prima, a onor di cronaca, elogiare la band di supporto, gli austriaci Mother’s Cake, tanto abili e sorprendenti quanto è stupido il loro moniker. Si presentano in forma di power trio e non appena attaccano con il primo pezzo mi colpiscono subito la tecnica e la maturità compositiva. Come definirli? Per chi mi conosce non è un mistero che il sottoscritto, molti anni or sono, abbia venduto l’anima a una band canadese chiamata Rush. E non appena il cantante accenna la prima strofa rimango colpito dalla similitudine con il sommo Geddy Lee. Non una copia spudorata, ma una timbrica ed uno stile che assomigliano molto a quelli del “nasone”. Hanno anche quegli elementi dell’hard rock classico dei seventies che li rapporta in un certo modo alla prima “era” discografica della band di Toronto. Quella, per intenderci, in cui si erano staccati da una matrice tipicamente zeppeliniana e si accingevano a creare un suono unico, inimitabile. Quello di 2112 e A Farewell to Kings, per dire, o dello stratosferico Hemispheres. I Mother’s Cake si mantengono a volte sul versante hard rock progressivo, altre volte sull’energia ritmica dei Rage Against The Machine andando qua e là sul funk-rock alla RHCP. Davvero una proposta interessante e un cantante che spacca. Bravi davvero! Esibizione un po’ corta, forse, ma che lascia il pubblico, accorso numeroso, piuttosto contento. Applausi copiosi e meritati.

Vado al banco delle t-shirt e noto subito i prezzi ultra-pompati del merchandising degli Anathema. Cosa che mi dovevo aspettare fin da quando mi ero reso conto del prezzo del biglietto, molto più caro rispetto alla norma dei concerti che si vedono qua nei club. Piuttosto esosi, i nostri. A questo punto mi aspetto una performance ultra-professionale e convincente. Le luci soffuse che si iniziano a vedere nella zona palco sembrano promettere una bella atmosfera intimista. Comincio a vedere le prime coppiette che si sbaciucchiano e si abbracciano e rimango un po’ disgustato. Sta per iniziare, e il mio amico Davide mi dice che dal vivo sanno emozionare. Lui li ha visti sei volte in tutto quindi ha cognizione di causa. Il problema è che il loro repertorio dell’ultimo decennio, come già ebbi modo di dire, non è propriamente nelle mie corde.

Riconosco soprattutto i pezzi degli ultimi due album perché sono quelli su cui mi sono concentrato di più per non arrivare impreparato all’evento. Quindi The Lost Song pt. 1 e pt. 2 sono ancora fresche e devo dire che mi coinvolgono, in quanto nettamente gli episodi migliori di Distant Satellites, disco che, a dirla tutta, non mi è manco dispiaciuto. Non so se Lee Douglas sia giù di voce o semplicemente il livello della performance sia frutto di qualche suo limite tecnico, ma comunque non mi convince sempre al 100% e conferma la mia impressione, e cioè che Vincent Cavanagh abbia più talento espressivo e più “presenza” della bionda cantante. Ad ogni modo, i due capitoli di Untouchable, pezzo successivo, sono struggenti. Capolavoro. Coinvolgente nel suo crescendo e davvero suggestiva, con le sue armonizzazioni vocali frutto del bellissimo duetto tra Vincent e Lee. Weather Systems era, d’altronde, un discone della madonna. Direi che questo e’ l’acme della serata.

La gente canta e si emoziona. Un pubblico cosi’ soddisfatto non lo si vede tutti i giorni. Personalmente ho avuto modo di esaltarmi di più in altre occasioni ma devo ammettere che l’attitudine è ultra professionale e, se anche avessero deciso di registrare un DVD live o un album, la serata di oggi sarebbe perfetta, con le coppiette che si abbracciano e pure qualche vecchio stempiato con la maglietta del vecchio logo.



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