Anche all'estero Romney non pensa altro che ai suoi elettori americani
Con la tappa in Polonia si è conclusa la visita di sei giorni compiuta da Mitt Romney in Europa e Medio Oriente.
Dopo la prima disastrosa tappa in Inghilterra, in cui l’ex governatore ha inanellato una gaffe dietro l’altra, nelle due successive fermate in Israele e Polonia, Romney ha evitato ulteriori figuracce anche se non ha aggiunto molto alle sue credenziali di rappresentante degli interessi americani all’estero.
Il viaggio compiuto dal candidato repubblicano doveva proprio servire ad evidenziare la sua perizia e la conoscenza della realtà internazionale visto che il prossimo novembre potrebbe rimpiazzare Barack Obama quale inquilino della Casa Bianca.
In realtà Romney non sembra aver superato la prova. Dopo la tappa inglese, l’ex governatore è giunto in Israele e lì non ha fatto altro che ribadire, magari con maggior enfasi, quanto sostenuto più volte da Obama riguardo lo stato ebraico, senza indicare alcun nuovo argomento o punto di vista.
Non solo, laddove ha provato a prendere le distanze dal presidente non lo ha fatto seguendo un disegno coerente, ma ha preferito solo solleticare le posizioni dei suoi possibili elettori in patria.
Ad esempio, sull’Iran ha indicato che se fosse stato eletto presidente non avrebbe opposto alcuna obiezione a che Israele assumesse ogni misura possibile per difendersi da una possibile acquisizione iraniana dell’atomica, anche se non ha voluto spingersi anche ad accettare un possibile attacco a sorpresa di Tel Aviv contro Teheran senza un preventivo avviso israeliano agli Usa.
Le stesse cose dette e ridette da Obama fino alla nausea. A queste posizioni ben note ha però aggiunto due cose, la sua convinzione che se la popolazione israeliana è riuscita a ottenere tassi di sviluppo economico migliori rispetto a quella palestinese è una questione di differenti culture e poi che se entrerà alla Casa Bianca una tra le prime cose che farà sarà di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, vera capitale di Israele.
La prima affermazione, per la quale Romney è stato subito tacciato di razzismo da parte del primo ministro palestinese Salam Fayyad, è del tutto gratuita e ha come unico scopo ottenere il plauso degli elettori americani di origine ebraica, una constituency che nel 2008 ha votato con uno schiacciante 78% a favore di Obama e che Romney vorrebbe indurre a votare anche per lui.
Con la presa di posizione a favore di Gerusalemme come capitale di Israele, annessa con la guerra dei sei giorni del 1967 e mai riconosciuta dalla comunità internazionale, Romney ha voluto ingraziarsi il sostegno dei fondamentalisti evangelici americani.
Questi infatti ritengono che solo Gerusalemme possa essere la capitale di Israele e soprattutto vorrebbero che lo stato israeliano ottenesse il pieno controllo dell’intera Terra Santa, escludendone i palestinesi e questo non perché siano particolarmente amici di Israele, ma perché sono convinti che solo la nascita di una Grande Israele porterà al ritorno di Cristo in terra per il definitivo Giudizio Universale.
Un credo a dir poco balzano, ma che a Romney non costa nulla sostenere, visto lo scarso appeal di lui e della sua religione mormone tra i fondamentalisti evangelici.
Le stesse considerazioni possono essere fatte riguardo le parole pronunciate dall’ex governatore del Massachussets nell’ultima tappa del suo viaggio all’estero, quella in Polonia. Anche qui Romney ha voluto titillare gli animi di un altro gruppo di suoi potenziali elettori, i cattolici americani. Di qui le lodi e l’esaltazione del papa Giovanni Paolo II e di alcune sue encicliche.
In sostanza, l’uscita fuori dai confini americani di Mitt Romney non ha conseguito i risultati di prestigio sperati, ma ha solo confermato che il candidato repubblicano non è uno statista, ma solo un mero politicante che pensa solo all’immediato vantaggio elettorale e alla prossima consultazione popolare.