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Andar per mummie: Urbania

Creato il 16 ottobre 2014 da Salone Del Lutto @salonedellutto

Lo so, è una domanda che molti di noi si pongono… Quante sono le mummie in Italia? Rispondere è difficile, perché, a contrario di quel che si potrebbe pensare i casi di mummificazione nella nostra penisola sono ampiamente attestati, in particolare i casi di mummie singole, più numerosi rispetto a quelli di gruppi di mummie. La loro distribuzione comprende ugualmente il nord e il sud, dove sono situate le “collezioni” più importanti. Molte di esse sono mummie di gente comune, spesso anonimi di cui risulta impossibile conoscere altro al di fuori delle cause del trapasso, stabilite da accurati esami paleopatologici. In qualche caso si tratta di mummie di santi. E SdL che c’entra? C’entra eccome perché, dallo scorso anno, quando fu scoperta la mummia Graziella, andar per mummie è diventata un po’ la nostra passione… Allora ecco. Iniziamo così.

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Poco più di 7000 abitanti, Urbania è un comune marchigiano in provincia di Pesaro e Urbino. Nonostante le dimensioni ridotte è tuttavia un’interessante meta turistica, come molti altri paesi e paeselli italiani, capaci di riservare piccole grandi sorprese. Quella di Urbania risiede all’interno della Cappella Cola, edificata nel 1830 e successivamente ribattezzata col nome di Chiesa dei morti, dove si preserva un gioioso gruppo di 18 corpi, 15 dei quali mummificati naturalmente, databili fra il XIV e il XVIII secolo.

A occuparsi della manutenzione del luogo era la Confraternita della buona morte, con patrono San Giovanni Decollato, fondata nel 1567 e che, come prevedeva il suo statuto, si occupava del trasporto dei cadaveri, di assistere i moribondi – in particolare i condannati a morte, i poveri, gli handicappati, gli epidemici e gli emarginati –, di attendere alle sepolture e di espletare le varie pratiche burocratiche successive alla morte. Benché non vi siano notizie certe sulle pratiche di sepoltura da essi adottate, è probabile che, come avveniva in molti altri casi in quell’epoca, le inumazioni avessero luogo nello spazio circostante alla chiesa, in un suolo che presentava le caratteristiche ideali per innescare il processo di mummificazione.

I primi corpi furono scoperti in seguito all’editto di Saint-Cloud, emanato per volere di Napoleone il 12 giugno del 1804. Per ottemperare alle nuove norme igieniche, che imponevano la sepoltura dei cadaveri al di fuori dei centri abitati, ai membri della confraternita fu affidato il compito di scavare nel giardino della chiesa e di recuperare tutti i resti mortali da trasferire in un luogo più consono. Insieme agli scheletri, ai teschi e alle ossa, emersero anche i corpi mummificati, che destarono l’ammirazione del priore Vincenzo Piccini e che, su sua richiesta, non vennero spostati e furono mantenuti all’interno della cappella.

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Piccini iniziò anche a fantasticare. Secondo lui, infatti, il processo di mummificazione non poteva essere spiegato come dovuto a cause naturali. Al contrario, ipotizzò che le mummie fossero state trattate con una qualche alchimia, che fossero cavie sottoposte agli esperimenti di un mago, probabilmente, il quale aveva trovato il modo di preservarle in eterno. Oltre che essere priore della confraternita, Piccini esercitava anche la professione di farmacista e fu così che decise di dedicare gli ultimi anni della propria vita a testare diverse formule e ricette. Quando ritenne di avere trovato quella giusta, lasciò ai propri collaboratori dettagliate istruzioni affinché, dopo la sua morte, il proprio cadavere fosse trattato con una serie di iniezioni e affinché si procedesse allo stesso modo anche con quelli della moglie e del figlio. Piccini morì nel 1832 e le sue disposizioni vennero seguite alla lettera, ma l’effetto ottenuto non fu quello che il priore aveva sperato. Il suo cadavere e quelli dei suoi congiunti, sistemati al pari degli altri nelle teche della cappella, sono infatti più simili a scheletri che a mummie e appaiono molto diversi nell’aspetto da quelli degli altri quindici corpi esposti.

La formula era evidentemente sbagliata, ma soprattutto anni di studi successivi hanno smentito le ipotesi di Piccini, chiarendo che la causa della mummificazione dei morti di Urbania fosse proprio l’ipotesi naturale che egli aveva scartato. Il luogo delle sepolture di Urbania presentava infatti condizioni ambientali peculiari, una combinazione di fattori geologici e climatici che concorsero a provocare la disidratazione dei tessuti dei corpi e a determinarne l’areazione. L’azione di questi fattori fu poi ulteriormente incrementata dall’azione combinata di muschi, funghi e lieviti naturali, che intervennero a creare una sorta di pellicola protettiva sui corpi.

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Nel 1836, dietro l’altare maggiore fu edificata una cripta semicircolare nota col nome di “cimitero delle mummie”, dove i corpi furono riposti in teche di vetro. Due grate ubicate dietro l’altare in corrispondenza della cripta ne consentivano una visione parziale, ma era soltanto accedendovi che si poteva e si può tuttora assistere a una vera e propria danza macabra. Il corpo scheletrito di Piccini occupa la posizione centrale ed è l’unico completamente vestito: ha una tonaca bianca e un mantello nero su cui spicca appuntato l’emblema della buona morte, segno di appartenenza alla confraternita; nella mano destra tiene un lungo bastone alla cui sommità è situato un pomello composto da un teschio e due tibie incrociate. Intorno a lui, in altre teche contigue, sono collocati gli altri corpi, nudi, tra cui quelli di sua moglie – Milena Gatti – e suo figlio, che condividono la prima postazione sulla sinistra. Fra gli altri cadaveri, solo pochi sono stati identificati: il Lombardelli detto il “Lunano”, il fornaio del paese, e i due canonici Mariano Muscinelli e Pierantonio Macci. Analisi scientifiche effettuate sulla mummia di quest’ultimo consentirono di stabilire che fosse morto per eccesso di colesterolo.

Gli altri corpi sono anonimi, ma per molti di essi le analisi paleopatologiche effettuate hanno reso possibile ricostruire la vicenda legata alla loro morte: una donna morì di parto cesareo, un uomo di diabete, un giovane fu pugnalato al petto e un altro uomo ancora fu impiccato. Ma, senz’altro, il caso più impressionante è quello di un uomo che sul volto porta impressi i segni di un riso folle e sardonico. Un tempo l’obbligo di tenere i cadaveri in osservazione per le 48 ore successive alla morte non era ancora in vigore e si procedeva immediatamente all’interramento. L’uomo in questione fu appunto sepolto prematuramente, in uno stato di morte apparente: il ghigno sardonico non è l’unico segno che comprova questa ipotesi, vi sono anche i muscoli contratti, i pugni serrati, un graffio sulla coscia, nascosto dalla mano.

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A queste mummie, non è stata riservata alcuna attenzione a livello di vesti o di adornamenti. Alcune di esse, però, furono sottoposte a una delicata operazione di restauro prima di essere esposte: non tutti i corpi ritrovati negli scavi, infatti, erano in condizioni impeccabili. Alcuni di essi mancavano di un arto o del cranio. Fu così che, per una questione di decoro o pudore religioso, i membri della confraternita si adoperarono per restaurarli, completandoli con parti posticce. Il caso più emblematico è forse rappresentato dal corpo di una giovane donna, cui furono applicati un cranio e un avambraccio altrui.

Tutti a Urbania, allora, alla scoperta di questo Spoon River ante litteram.

di Silvia Ceriani


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