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L’Associazione Bancaria Italiana (Abi) ha inviato ai sindacati la disdetta riguardo il contratto collettivo firmato circa un anno fa. La notizia è arrivata nel pomeriggio di lunedì, ma è destinata a portare con se strascichi e conseguenze per molto tempo. La disdetta giunge inoltre con quattro mesi di anticipo rispetto ai termini di legge che ne prevedono sei e induce a pensare ad una situazione grave per quanto riguarda l’industria del credito del nostro paese .
La situazione delle banche italiane è complessa e va analizzata sotto più aspetti. Uno dei punti essenziali è il fatto che nel tempo gli sportelli hanno perso importanza, a scapito dell’internet banking. Nella nota inviata dall’ Abi ai sindacati si può chiaramente leggere: “Le banche si trovano a dover gestire addetti in eccedenza, con una vita lavorativa che si è nel frattempo allungata per effetto della riforma delle pensioni, e le cui competenze e professionalità non risultano più coerenti con l’attuale modo di fare banca”. I sindacati sono sul piede di guerra e minacciano lo sciopero per tutto il comparto bancario. Una possibile lettura della vicenda è che la lobby bancaria voglia fare pressione sul governo al fine di ottenere un aumento della defiscalizzazione sulle sofferenze che sono stimate dall’associazione per 140 miliardi di euro nel 2013.
Le sofferenze sono situazioni in cui il recupero del credito si presenta assai difficoltoso, ma non tutte le sofferenze sono crediti completamente inesigibili. Tipicamente i mutui sono più facili da recuperare nel lungo periodo, mentre i crediti verso le imprese, avendo la possibilità di dichiarare fallimento, presentano più difficoltà. Per citare un esempio, dagli ultimi dati contabili disponibili, Unicredit identifica come genericamente “deteriorati” il 14,45% dei crediti e come “sofferenze” l’8,13% dei crediti.
Nonostante ciò, il fisco impone dei tetti massimi per le detrazioni riconducibili alla svalutazione dei crediti ed è possibile che creare tensioni occupazionali sia un modo per cercare di ottenere dei benefici maggiori. Per i banchieri la crisi non permette di mantenere una redditività in grado di far fronte ai vincoli di vigilanza bancaria, quindi “qualcosa va fatto”. A dire il vero il precedente contratto aveva già congelato gli scatti di anzianità e aveva escluso i premi di produzione dal calcolo del Trattamento di Fine Rapporto. Probabilmente la lobby dei banchieri insisterà ancora di più su alcuni aspetti del contratto collettivo. Uno di questi potrebbe essere il demansionamento, cioè la remunerazione in base alla funzione effettivamente svolta e non in base al livello di avanzamento di carriera. La situazione non piace ai sindacati che chiedono che non venga toccata la contrattazione collettiva e temono che si voglia portare avanti un modello di contrattazione aziendale stile Marchionne.
Probabilmente si sarebbe arrivati comunque a questo punto, ma la crisi ha aggravato la situazione, non tanto per le sofferenze quanto per il calo dell’attività in generale. I mutui si sono quasi dimezzati, sono calati i finanziamenti alle imprese e il Pil si è contratto più dell’8% dall’inizio della crisi. Non si può neanche dimenticare come alcune scelte “politiche” abbiano contribuito alle difficoltà che oggi riscontrano le banche. Questo accelera dei mutamenti verso i quali probabilmente si sarebbe già andati incontro. Molte banche però sono ancora in attivo. Da una rapida lettura della relazione semestrale di Unicredit emerga un utile atteso che si aggira intorno agli 810 milioni di euro al 30 giugno 2013 mentre la semestrale del gruppi Intesa San Paolo realizza circa 422 milioni di utili. Si può pensare che essendo banche grandi e che diversificando gli investimenti questi due gruppi riescano in ogni caso a produrre dei risultati positivi. Prendendo in mano i bilanci di alcune società più piccole però la situazione rimane positiva. Banca Sella per esempio presenta un utile di circa 20 milioni di euro nel 2012 e anche il Banco Popolare di Milano è in attivo di circa 105 milioni di euro, come evidenziato nella relazione semestrale, nonostante lo scorso anno fosse uno dei titoli più oscillanti in borsa e uno di quelli su cui si concentravano più incertezza.
Naturalmente la situazione non è positiva per tutti. Giunge oggi la notizia del declassamento di Banca Carige a ‘B2′ da ‘Baa2′ da parte di Moody’s. La società infatti è in perdita per circa 29 milioni di euro, come risulta dalla relazione semestrale di Luglio dopo un 2012 anch’esso chiuso con segno negativo. Le spese per il personale sono alte in tutte le banche, ma costituiscono la principale voce di spesa per questo modello di business . Il gruppo Unicredit nel 2012 ha speso per il personale poco meno di 9 miliardi di euro, mentre sul consolidati di Banca Sella pesano 222 milioni circa di stipendi; per la sezione commerciale di Intesa San Paolo pesano per più di 3 miliardi e per banca Carige, di cui sopra abbiamo citato il momento difficile, gli stipendi pesano per poco meno di 193 milioni di euro. Numeri che fanno gola in proporzione agli utili. Non c’è da stupirsi che la lobby dei banchieri prenda di mira questa particolare voce di spesa.
Un modo molto appetibile per risolvere la situazione sarebbe trovare uno scivolo verso la pensione per molti dipendenti più anziani. Nel caso si prospettasse un’opzione di questo tipo saremmo di fronte al fallimento conclamato della riforma Fornero, perché lo Stato si dovrebbe accollare dei costi dei quali poco tempo prima ha cercato di sgravarsi. Nessuna opzione è al momento chiara e si possono tracciare solo ipotesi.
Sullo sfondo rimangono i problemi di un settore che coinvolge più di 300 mila addetti a cui si aggiunge la recente disdetta da parte dell’Abi.