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Articolo 18, che occasione per la sinistra!

Creato il 21 settembre 2014 da Antonio De Rose @antonio_derose

Articolo 18, che occasione per la sinistra!

Entro la fine dell’anno un milione di persone avrà perso il posto dall’inizio della crisi economica peggiore dopo il Ventinove. Le fabbriche chiudono, nessun giudice può impedirlo per far piacere ai sindacati. L’Italia “non è un ecosistema favorevole alle imprese, agli investimenti e al rischio privato”. E non perché un tribunale può ordinare il reintegro di un lavoratore licenziato senza merito, ma perché il lavoro costa 28,00 euro l’ora, troppo se ne ricavo appena 32,00 lordi, e gli stipendi sono comunque i più bassi d’Europa.
Lo Stato è il principale limite allo sviluppo della nostra economia; incuneandosi tra costo del lavoro e salario netto esige metà della posta, ma i servizi che dipendono dalle amministrazioni pubbliche, a dispetto delle pretese universalistiche del welfare nostrano, non funzionano. La pressione fiscale, 44 punti in percentuale di PIL in ulteriore crescita, erode il margine di soddisfazione degli imprenditori e riduce il potere d’acquisto delle famiglie che consumano sempre di meno.
Il problema non è l’articolo 18 che, riguardando i licenziamenti discriminatori, nulla toglie alla competitività delle aziende. Il problema è il settore pubblico in senso lato (c’entrano anche le società privatizzate e partecipate da Stato, Regioni, Enti Locali), che scarica oneri sociali enormi su quello privato in senso stretto senza produrre il valore che, tipicamente nelle socialdemocrazie, giustifica una tassazione anche più elevata della nostra.
Matteo Renzi non farà seguito al lavoro di Carlo Cottarelli, commissario alla spending review con le valige in mano, perché evidentemente il piano delle economista non corrisponde ai calcoli elettoralistici del premier. Di esuberi tra i dipendenti pubblici, ad esempio, non si parla praticamente più. Tra il 2011 e il 2012, per rientrare di 5 miliardi di sterline, il primo ministro inglese Cameron ha licenziato 54 mila persone. Ad oggi i dipendenti pubblici in meno sono mezzo milione. Con i risparmi generati dai tagli Westminster ha ridato fiato all’economia. La Gran Bretagna ha una crescita stimata dalla Banca d’Inghilterra al 3,4% per l’anno in corso e la disoccupazione è calata dal 8,4% del 2011 al 6,2%, metà di quella italiana. Mezzo milione di dipendenti pubblici in meno, un milione e mezzo di occupati in più.
L’ex Sindaco di Firenze, dal suo insediamento a Palazzo Chigi, non ha dato all’economia quegli stimoli che servirebbero in un momento così grave. Non ha tagliato la spesa pubblica, anzi: “Si sta diffondendo la pratica di autorizzare nuove spese indicando che la copertura sarà trovata attraverso future operazioni di revisione della spesa o, in assenza di queste, attraverso tagli lineari delle spese ministeriali“; non ha ridotto le tasse: “gli effetti legati alla rivalutazione delle rendite finanziarie, all’aumento dell’Iva, che nel 2014 si distribuisce su tutto l’arco dell’anno, all’introduzione della Tasi e, soprattutto, all’inasprimento fiscale che graverà sulle banche, compensano abbondantemente il taglio dell’Irap e gli 80 euro lasciati in busta paga ai lavoratori dipendenti con redditi medio bassi”.
Renzi abbozza in questi giorni una riforma del mercato del lavoro che, a giudicare dai titoli, peggiorerebbe le condizioni normative dei rapporti a tutto svantaggio dei lavoratori subordinati. Riducendo le tutele dei neoassunti, il segretario del Pd compirebbe una precisa scelta politica e ideologica, ancorché inutile per rilanciare l’economia, di stampo ultraconservatore. Un nuovo compromesso sociale-industriale potrebbe a quel punto organizzarsi per contrastare democraticamente l’indirizzo del governo. Sarebbe l’occasione per la sinistra politica e sindacale di riaccreditarsi presso una vasta opinione contraria al sistema di interessi rappresentato da Renzi.



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