
29.
Freccette
A regola dovrebbe essere esistito anche il 1978, credo. Al casello di Andrea Supplizio tiravamo freccette a una Tina Turner scosciatissima, su pagina strappata da Sorrisi e Canzoni TV e fissata con le puntine a un tronco di betulla. Ma soltanto da sotto la mia tuta e le mie mutande qualcosa si rigonfiava e premeva, al mio amico sembrava non succedere un cazzo, solo io mi eccitavo sperando che le punte delle freccette seviziassero davvero quelle svergognatissime carni.
Il papà di Andrea si chiamava Supplizio Delizioso, e forse era questa giustapposizione di parole a sviarmi l’immaginario. Le parole avevano già allora su di me effetti pericolosi e a volte devastanti. La più tremenda con cui feci conoscenza fu la parola “colpa”. A lungo credetti di essere il solo bambino perverso in tutto quanto il mondo, e sempre più spesso pregavo questo loro Dio di Paura e Castigo di perdonarmi, giuravo tremebondo che non l’avrei fatto mai più, elaboravo fioretti e penitenze, gli chiedevo che mi aiutasse a star lontano da quegli abominevoli peccati. In fondo ero un rispettabile chierichetto, io. Ero l’orgoglio del prozio arciprete, e delle beghine vecchie del paese.
Loro non lo sanno, ma il vantaggio delle primissime seghe è che viene fuori una gocciolina concentrata, acquosa e trasparente, quasi invisibile, non rintracciabile, e la goduria è di gran lunga superiore a quella degli orgasmi adulti – forse per via del mistero, della novità, della sorpresa – ma insomma non sporchi e non lasci traccia, per cui mi scopavo di tutto, dai cuscini piacevolmente urticanti del divano in sala (mentre i genitori in cucina sorseggiavano il Paulista) ai copriletti in camera mia. Nessuno si accorgeva di niente. Poi chiedevo scusa al Dio di Paura e Castigo, a questo spauracchio cagacazzo e notaio delle goccioline altrui, e gli promettevo, chissà perché, di non farlo mai più.
Pellerossa seminudi cavalcavano a fior di pelo i loro destrieri selvaggi, eccitandosi fino alla morte nelle praterie della mia mente così acerba, sugli altipiani della mia anima confusa. L’idea della morte s’intrometteva nelle fantasticherie e non ne usciva più – Eros e Thanatos dentro un cuore fanciullo – sicché per un certo periodo esse si presentarono così: ero il cheyenne più bellicoso, il viso truccato coi colori di guerra, pronto a farsi ammazzare piuttosto che gettare le armi. Disarcionato in battaglia, mi si intimava di arrendermi, mentre un prurito tra le gambe mi costringeva a montare al volo su un altro mustang per buttarmi nell’ultimo slancio suicida. Solo contro decine di soldati, era come andare all’assalto di un plotone d’esecuzione, le prime ferite di striscio aumentavano la libidine: lo sgorgare della goccia e il beccarmi l’ultima pallottola (che immaginavo proprio sull’uccello, novello tallone d’Achille) erano eventi contemporanei e unificati.
Quando il sabato si andava al catechismo dalla suora Superiora a spaventarci un po’, cercavo di passare a chiamare Andrea Supplizio al casello lasciando indietro Luca Evangelista che stava a metà strada fra noi. Quello stronzo di Luca Evangelista, dal canto suo, cercava di precedermi e tagliarmi fuori. E siccome abitava a metà strada la spuntava quasi sempre lui. Arrivavo al casello della ferrovia, bussavo, chiedevo di Andrea, e ogni volta appariva sua madre con una copia di Grand Hotel in mano e mi diceva: «È andato adessoadesso co’ Evangelì».
L’avrei presa a calci, la signora Supplizio, quando diceva questa cosa. In tutta quella mia breve parte di vita, era la frase che mi faceva indispettire di più.
È andato adessoadesso co’ Evangelì.
Fossero schizzati via da pochi minuti li avrei visti uscire, avrei scorto le loro sagome da giù in fondo al rettilineo. Che accidenti voleva dire “adessoadesso” – tre quarti d’ora?
Era tutta una cospirazione, un tradimento.
Intanto continuavo a non capire questa doppia funzione del pìrulo. Avevo la fantasia dell’ultima goccia di pipì trattenuta, che se fosse poi scappata addosso avrebbe fatto godere e forse anche morire. Sì, era quello il segreto, quella sferzata di piacere incredibile doveva essere il sollievo di una goccia di pipì troppo a lungo trattenuta, che alla fine trovava il suo sfogo eruttivo.
Ma al Dio di Paura e Castigo tutto questo piacere, naturalmente, non piaceva.
La Superiora era poi fissata con l’idea che almeno uno di noi avrebbe dovuto diventare prete. Ci diceva sempre che lei pregava tutte le sere, chiedendo al Dio di Paura e Castigo, che però lei assurdamente chiamava Buondio, che almeno uno di noi prendesse i voti, ma quando ci diceva questa cosa la diceva guardando negli occhi me, sempre me, solo me. Si sbagliava. Non potevo essere io: io facevo le cose sporche. E poi i preti non potevano amare le donne, e io volevo amare la Elena Calligaris, una biondina che mi piaceva e mi faceva sudare il cuore di un sudore profumato di rose al cianuro – esaltanti, intossicanti, assassine.
Finita la dottrina c’era il film di propaganda etero al cinema parrocchiale, con l’eroe del west che salva la ragazza e poi si baciano ma senza lingua, e allora anch’io andavo al cinema col solo scopo di baciare al buio la Elena Calligaris, ma nell’impeto la baciavo sempre più o meno sul naso o su un occhio, con lei che mi chiedeva: “Perché qui?”. Però le piacevo anche se ero maldestro e sbagliavo la mira coi baci, e un giorno voleva addirittura presentarmi suo padre, e allora io sgattaiolai via dal cinema inventando una scusa. Certi istinti di conservazione se si formano si formano presto.
Ma ancora non mettevo bene a fuoco le cose del sesso, cioè non mi riusciva di collegare quelle nuove imprese libidinose dell’uccello alla bella biondina Elena Calligaris. Le biondine si baciavano e basta. Possibilmente sulla guancia (la bocca era troppo), smettendo di andare a beccare quei cazzo di altri bersagli sbagliati. Avrei passato la vita, a baciare la mia Elena, dimenticandomi perfino di respirare.
Ben presto ci arrivai, ad associare le mie seghette undicenni alle femmine. Le scopavo di solito sul mio letto, sempre disteso al contrario con la testa dalla parte dei piedi, e della porta, per controllare che non facesse irruzione nessuno. Ma la stranezza era che invece di andare su e giù ancheggiavo da sinistra a destra e da destra a sinistra: mi ero fatto fregare dalla parola “scopare” (le parole ci fregano sempre), e credevo che la figa andasse ramazzata. Spennellata via in superficie come un pavimento peloso con la scopa di saggina. Il che oltretutto spiegava come mai le donne rimanessero incinte così raramente, solo dopo numerosi e pazienti tentativi.
I bulletti e i ripetenti erano molto più avanti, rispetto a noi. (Non che ci volesse molto…) Venivano al campo sportivo coi fumetti di Sukia e di Zora la Vampira, ci scandalizzavano spiegandoci che scopare voleva dire “metterglielo dentro”.
«Che schifo!» si ribellava l’Evangelista.
«E tu come credi di essere nato, pezzo di cretino?» gli chiedeva allora un ripetente saputello.
«No, impossibile: i miei genitori sono brave persone che votano DC, è escluso che abbiano mai fatto certe cose», s’intestardiva il Luca.
Me li feci prestare, i fumetti di Sukia e di Zora, e le mie fantasie si omologarono a quelle di tutti. Solo in apparenza: allora non potevo esserne conscio, ma la più grande eccitazione, fin da subito, fu provocata dal fatto che in me al desiderio di averle si mescolava quello di esserle. Probabile che anche al casello fosse andata così: mi ero immedesimato in Tina Turner bersagliata dalle freccette. Per quello avvampavo così tanto. Già sapevo che la parte che godeva era quella femminile. Gli uomini-solo-uomini: marionette cazzute, stantuffi olimpionici, tiratori di freccette.
A dodicianni la famiglia di Andrea se ne andò a vivere a Roma, in una casa vera. Andai a salutarlo al casello, imparai la parola malinconia (c’era anche una canzone di Riccardo Fogli, Metti un amico che ora deve partire, probabilmente non si fa più sentire, non sai se piangere o provare a scherzare, non dici niente hai mille cose da dire), ci scrivemmo lettere che poi diventarono cartoline e poi auguri natalizi e poi nulla, e piano piano l’infanzia di noi tutti svanì.
Le seghe andarono avanti a farsele solo i più sfigati e i più intelligenti. Per tutti gli altri cominciava quella cosa che gli adulti chiamavano vita: lavorare, scopare, preoccuparsi, morire.