Un paio di settimane fa volevo scrivere un post su Amy Winehouse.
Su di lei e sulla sua pessima performance in Serbia, dove, totalmente sbronza, si era accasciata a terra poco dopo l’inizio del concerto.
In quel caso, con tutta la simpatia e tutta la comprensione possibile, non si era comportata bene.
Per niente.
Di certo la sua sorpresa non era piaciuta al pubblico, che, incazzato nero, si era sfogato a suon di fischi.
Anche se non credo sia stata in grado di sentirli, allora.
Ma avevo deciso di scrivere su quel concerto anche per dire che, sebbene la cosa in sé non fosse degna di lode, poteva dimostrare come Amy Winehouse fosse una vera rockstar.
Perché le rockstar sono maledette.
E lei lo era di brutto.
Però, siamo chiari, per essere una rockstar non è necessario morire.
Essere maledetti corrisponde a essere tormentati.
All’accettare la complessità dell’esistenza.
Al non fingere che tutto vada bene.
E lei questo non l’ha mai fatto.
Era tanto umana. A partire da quello che cantava.
Ricca, certo.
Di successo.
Ma alla fine se lo meritava.
E anzi, fra i tanti ricchi e famosi del passato più recente, era una di quelle che ne aveva maggiormente diritto.
Era brava.
E anche se non ho mai avuto un suo disco, le canzoni mi piacciono.
E devo ammettere che, quando un po’ di tempo fa mi trovavo a spasso fra i locali di Camden Town, ho pensato all’eventualità di un avvistamento.
Poi un avvistamento c’è stato, anche se non si trattava di Amy.
Ma questa è un’altra storia.
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