Da una settimana il Sudan è attraversato da un’ondata di proteste che ad oggi, 30 settembre, ha già lasciato sul terreno 140 morti e causato l’arresto di altre 700 persone. La situazione è precipitata tra il 24 e il 25 settembre a seguito dell’annuncio della sospensione dei sussidi per il carburante, che ha provocato il raddoppio del prezzo della benzina nel giro di una notte. I manifestanti hanno chiesto le dimissioni del presidente Omar al-Bashir, al potere dal 1989 in seguito ad un colpo di Stato.
Non è la prima volta che i sudanesi scendono in piazza. Dagli inizi del 2011, sull’onta della cosiddetta Primavera araba, il Paese è stato più volte interessato da manifestazioni di protesta, in particolare nel dicembre dello stesso anno, e nel giugno del 2012, in seguito all’approvazione di un criticato piano di austerity. Ma ma prima d’ora la repressione aveva raggiunto questi livelli. Secondo il Centro africano di studi sulla giustizia e la pace e Amnesty International, in un comunicato congiunto rilasciato il venerdì 27 settembre:
Tra il 24 e il 25 settembre le forze di sicurezza hanno ucciso, colpendoli alla testa e al petto, almeno 50 manifestanti. Secondo fonti e attivisti locali, i morti sarebbero oltre 100. Solo a Omdurman, sono stati inviati all’obitorio 36 cadaveri ed eseguiti 38 interventi chirurgici. La maggior parte dei manifestanti uccisi erano di età compresa tra 19 e 26 anni.
Secondo Limes:
Anche se Internet è stato bloccato per giorni dal governo, che ha intimato ai quotidiani di pubblicare solo notizie ‘autorizzate’ da fonti ufficiali, l’eco di quanto stia avvenendo nel paese si sta amplificando sempre di più.
La società civile del Sudan non ha alcuna intenzione di subire i rincari dovuti alla svalutazione della sterlina sudanese e alla crisi sempre più pressante, aggravata dalla separazione dal Sud che ha comportato la perdita per Khartoum degli ingenti introiti del petrolio di quell’area. Alle manifestazioni pacifiche contro la povertà e per i diritti basilari organizzate con il passa parola, il governo sudanese ha risposto con violenza inaudita.
Negli scontri tra studenti del Darfur e forze di sicurezza del gennaio-febbraio 2012 furono usati lacrimogeni e armi da fuoco. Nel 2013 il modus operandi è apparso lo stesso: una reazione spropositata.
Di tutto questo in Italia non se ne parla.
Eppure, tra Roma e Khartoum, dei legami ci sono eccome. L’Italia è tra i Paesi più generosi in termini di donazioni per il Sudan, ma lo è anche negli scambi più propriamente commerciali e negli investimenti. Nel 2011, l’Italia è stata la seconda esportatrice di prodotti europei verso il Sudan (cibo, manufatti, apparecchiature per la raffineria e il trasporto) e la prima importatrice dal Sudan in Europa.
Nel 2012 la Eridania ha siglato un accordo di partnership da 130 milioni di dollari con la Kennan Sugar Company, corporation partecipata dal governo sudanese, per una raffineria di zucchero da canna a Port Sudan, che partirà a pieni regimi dal 2014. Sempre lo scorso anno, Khartoum ha richiesto una partnership con la polizia italiana per il controllo delle frontiere, diventando così il secondo Paese africano a proporre un accordo in materia con Roma dopo la Libia.
Inoltre, al primo gennaio 2011 in Italia vivevano 2.398 immigrati sudanesi, per lo più rifugiati di origine darfuriana.
Perché questa digressione sulle relazioni italo-sudanesi? Semplice: il prossimo 3 ottobre si terrà qui in Italia il Primo forum economico Sudan-Italia, nel corso del quale saranno firmati ulteriori accordi commerciali e di scopo. Ma sul tema dei diritti umani è probabile che la delegazione sudanese e quella italiana si troveranno subito d’accordo: nel senso che non se ne parlerà affatto. Era così anche negli incontri ufficiali Italia-Libia ai tempi di Gheddafi e, più di recente, nelle relazioni col Kazakistan alla luce del caso Ablyazov.
La politica italiana ama riempirsi la bocca con dichiarazioni di principio sulla necessità di proteggere i deboli e risolvere i conflitti, salvo poi ostentare indifferenza di fronte alla necessità di preservare i nostri interessi economici - peraltro non sempre limpidi: dal 2008 si sa che anche l’Italia vende armi (illegalmente) al regime di Bashir.
Gli affari sono affari. Con buona pace degli esuli sudanesi che, in occasione del forum economico, hanno già annunciato una manifestazione di protesta dinanzi all’ambasciata di Khartoum a Roma.