Di Ballabile terreo, di Laura Liberale, pubblicato da D’If edizioni (2011, Napoli), ho avuto la fortuna di assistere ad una anticipazione pubblica, ovvero alla lettura di estratti da parte dell’autrice, nel corso del Premio Miosotis 2010, nella cui occasione il libro è stato premiato.
L’occasione alta di questa silloge-poemetto è fornita dalla scomparsa, per malattia, del padre Alberto, di cui già il titolo “Ballabile terreo”, coraggioso e vertiginoso anagramma del nome-e-cognome, reca traccia, forse testimonio di un legame quasi “plantare” al suolo della terra viva (e il ballo è questo, legame e scioglimento dal peso del legame, affondamento ctonio e trascendere aereo); un ballabile che ci piace rassomigliare al ballabile delle musichette da fisarmonica diatonica dell’antica provincia italiana.
Con l’arma, di seguito a più riprese brandita, di un’apparente ed amara ironia contro la realtà del dolore, sovente oltre le coordinate spazio-temporali, si percepisce al contempo il taccuino di viaggio e il rendiconto ossessivo di una presenza-assenza (“Sei tu./La bolla del tuo nome/che ci esplode nelle orecchie”), attraverso il tratto memoriale, il canto sommesso, il pianto non taciuto, per giungere senza timore alla voce di una presenza altra, di una compresenza (“O luce che fai strada./O fuoco che non bruci più ma guidi”). La realtà materiale del dolore come evento di un trascendere, già anticipato dai fatti della vita, che appare di una forza espressiva che prescinde dalla “letteratura”, nascendo in modo inconsueto dai legami della vita; la realtà della morte che diviene quello che Aldo Capitini chiamava “la compresenza dei morti e dei viventi”, un concetto di ascendenza indiana (fra l’altro, l’autrice è anche un’indologa della tradizione universitaria torinese che fu Martinetti e di Zolla) che credo sia presente in questi testi, al pari della capacità di commozione creaturale, come dell’attenzione ai nomi come segnature luminose di nascite e e costanti rinascite. In luogo di poesia che produce poesia, in questo libro (come, d’altronde, nel suo precedente “Sari”, dedicato alla figlia) un legame che genera poesia che, a sua volta, miracolosamente, rinnova un legame.
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ALCUNI TESTI:
Per cortesia, ne ascolti il suono:
adenocarcinoma
un settenario, dottore, dunque cantabilissimo.
Senta come s’impone, pagano e orfico
con le sue prime tre.
Come vada poi a strozzarsi sulla quinta
quasi prendesse di sé quel tanto di paura
(se prova a dirlo piano
è lì che in bocca fremono le salivari).
Con le restanti due tutto è compiuto
la chiusa del definitivo.
Ma ha mai pensato che fa rima
con pleroma e aroma?
Che abbia anch’esso tutta una pienezza
l’effluvio di se stesso o qualcos’altro?
Qualcosa che ci sfugge per terrore?
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Qui l’arrotino arriva in auto
megafonando, attento alla dizione
l’elenco delle sue prodezze
(“Ripariamo anche cucine a gas”
è di certo il pezzo forte).
Quello delle mie vacanze piccole
appariva fra salice e cancello
(un quadrato di Oz per l’uomo di metallo
sulla bici trasformata in officina)
in tuta blu, naturalmente
“Mulitta, mulitta”
metteva quasi i brividi il rombo della voce
ed era tutto.
Stridevano sulla mola le cicale dell’estate.
E intanto s’affilava ciò che aveva da affilarsi.
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(A Maurizio, che ti ha preceduto)
Non giuratemi il dopo.
Una presenza di trecce d’aria e luce
da sciogliervi addosso.
È alla carne che dovevo annodare i miei bambini
per portarne la crescita ogni giorno
come un serto difeso alla madre.
Perciò non giuratemi il dopo.
Mozzatevi le lingue
con la mia mozzata giovinezza.
***
Percorro il bosco
per il tempo d’un pianto
che non abbia a indebitarsi
con orecchie umane.
E se chiamo mio padre
è perché nel bosco c’è il suo odore
e il nome non disturberà
l’oratoria inane delle foglie.
Poi un capriolo taglia il sentiero
e la sorpresa mozza il pianto.
Il bosco ha dunque pietà di me.
Ha ascoltato la preghiera di mio padre:
“Leniscilo il dolore a questa figlia
regalale un miracolo animato”.