Il 1782 rappresenta un anno sonnacchioso e piuttosto anonimo nella Storia. In Francia i fratelli Montgolfier fanno volare il primo pallone aerostatico, nell'America fresca di indipendenza apre i battenti la prima banca commerciale e l'Italia unita è ancora lontana. Dallo scorso giovedì 29 agosto a Londra, invece, il 1782 è il parametro che definisce le dimensioni della catastrofe politica che si è abbattuta inaspettata su Westminster ed il numero 10 di Downing Street: è da allora infatti che una mozione circa un intervento militare presentata da un Primo Ministro inglese non veniva respinta dalla House of Commons.
In brevissima sintesi: giovedì 29 agosto la camera "bassa" del Parlamento inglese (a maggioranza conservatrice) ha votato contro l'azione militare britannica in Siria, proposta del Primo Ministro (conservatore) David Cameron in risposta all'utilizzo di armi chimiche nel Paese mediorientale. In Italia, Paese erede del trasformismo e figlio dell'8 settembre, non sorprende che un simile risultato non faccia notizia in un caldo pomeriggio di fine estate in cui i media nostrani sono ossessivamente concentrati sulle penose vicende di politica interna.
Ma il voto del 29 agosto restituisce all'Europa e al mondo un Regno Unito disorientato ed in profonda crisi di identità. Due dei più autorevoli mezzi di informazione britannici, The Economist e Financial Times, si sono scagliati senza mezzi termini contro la politica londinese non risparmiando affondi tanto al partito Conservatore quanto a quello Laburista ed ai rispettivi leader. Tra gli articoli con cui le due testate hanno affrontato l'argomento campeggiano inequivocabili titoli molto duri quali " The vote of shame", " MPs have made a terrible mistake" oppure " Britain abdicates its role ".
Il Premier conservatore David Cameron, eletto tre anni fa al posto del predecessore Gordon Brown, sin dagli albori delle "Primavere Arabe" nel 2011 si è mostrato istintivamente interventista. Ancora di più la crisi Siriana ha accentuato la sua propensione, rivelando così un pericoloso scollamento tra la sua visione e quella di molti soggetti chiave molto più cauti e misurati, tra cui ha sempre spiccato il nome di Barack Obama.
Tuttavia gli avvenimenti del 21 agosto, in cui oltre 1400 civili hanno perso la vita a seguito dell'utilizzo di agenti nervini da parte (secondo gli organi di intelligence occidentali) del regime di Bashar al-Assad, ha improvvisamente segnato un punto di svolta nel conflitto siriano. L'impiego di armi chimiche ha alla fine allineato le posizioni di Washington e Londra, entrambe convinte che una rappresaglia contro le forze lealiste di Damasco sia l'unica strada ormai percorribile. Al refrain di Downing Street e Casa Bianca a braccetto in un intervento militare in Medio Oriente si è immediatamente unito l'Eliseo, da cui Hollande ha tuonato al pari dei suoi colleghi condannando senza se e senza ma l'accaduto.
In un frenetico giro di consultazioni tra le cancellerie Occidentali, sfilatesi immediatamente Roma e Berlino e chiaro che il Consiglio di Sicurezza ancora una volta non sarebbe rapidamente uscito dall' impasse del veto russo e cinese, un intervento congiunto anglo-franco-americano ha così preso rapidamente forma all'inizio dell'ultima settimana di agosto. Con Parigi relativamente tranquilla sull'onda del successo delle operazioni in Libia e Mali, Washington e Londra hanno invece cercato di premere sull'acceleratore, per aggirare gli ostacoli interni cavalcando l'emozione assicurata dalle immagini dei civili siriani morti e dei feriti, rimbalzate sui media di tutto il mondo. Così mentre negli USA il Congresso richiedeva un maggior coinvolgimento nelle decisioni circa l'impiego della forza militare - comunque non necessario, data la forma di governo del Paese -, nel Regno Unito le consultazioni tra il Premier ed il leader dell'opposizione laburista Ed Milliband portavano ad un sostanziale accordo sull'imminente impegno internazionale inglese.
I membri della House of Commons venivano fatti rientrare in tutta fretta dalle ferie estive, convocati per esprimere un voto sulla mozione presentata dal Governo a Westminster giovedì 29.
Ma sulla scena politica, all'apparenza tranquilla e dalla strada chiaramente segnata, mercoledì 28 irrompeva prepotentemente il Segretario Generale dell'ONU Ban Ki-moon chiedendo ulteriori quattro giorni affinché gli ispettori presenti sul suolo siriano potessero terminare i loro rilievi e lasciare il Paese. Assecondando un malumore montante tra le fila laburiste apertamente contrarie all'intervento, Milliband approfittava dell'occasione per togliere il proprio appoggio all'iniziativa di Cameron, motivando la decisione con l'impossibilità di sostenere un'azione militare con gli ispettori ancora sul posto e prima che le Nazioni Unite avessero avuto il tempo di valutare le conclusioni del loro rapporto.
Nella tarda serata di mercoledì, nel tentativo di ottenere il più ampio consenso lo staff del Primo Ministro rielaborava la mozione accogliendo gran parte delle istanze dell'opposizione. La nuova proposta anziché autorizzare un intervento immediato veniva così trasformata in una dichiarazione di intenti circa la necessità del coinvolgimento britannico, demandando ad una successiva votazione la delibera dell'impiego delle forze militari sulla base di quanto emerso dal lavoro delle Nazioni Unite.
Nonostante ciò la sponda laborista del Parlamento negava ulteriormente il proprio sostegno, lasciando a Cameron la sola decisione di seguire in autonomia la propria linea politica forte della maggioranza conservatrice tanto nella House of Commons quanto nella House of Lords, la camera "alta" di Westminster. Giovedì 29, seguendo un calendario politico riformulato in tutta fretta, la Camera dei Comuni ha votato la mozione di Cameron. Dopo oltre sei ore di un acceso dibattito il voto ha segnato uno sconcertante 285 a 272 a sfavore. Oltre all'opposizione, sono andati contro la politica estera del Governo anche 30 parlamentari Tories e 9 Liberal-democratici (questi ultimi appartenenti sì ad uno schieramento minoritario, ma comunque parte della coalizione di maggioranza).
L'esito, del tutto inaspettato per come è maturato, ha rappresentato uno choc non solo per il Primo Ministro ma per l'intera classe politica e l'opinione pubblica britannica.
Come e perché è stata possibile quella che un indignato Economist definisce senza mezze misure "catastrofe"?
Innanzitutto, le responsabilità dei singoli politici ad iniziare naturalmente dal premier David Cameron. Risucchiato nel vortice degli eventi, il Primo Ministro ha perso la lucidità e la capacità di valutare correttamente gli orientamenti e gli umori non solo dei suoi avversari politici nei giorni precedenti, ma anche dei suoi parlamentari tra cui addirittura alcuni membri del suo stesso gabinetto. Nel corso del dibattito che ha preceduto la votazione Cameron ha inoltre cercato di non rivelare troppo circa le prove in possesso dell' intelligence, ammettendo di non poter attribuire al 100% la responsabilità dell'accaduto alle forze di Assad e mancando così di fornire argomentazioni "al di là di ogni ragionevole dubbio".
Il vice Premier Nick Clegg, giudicato dalla stampa britannica molto più simile ad uno spettatore inconsapevole piuttosto che ad un leader politico, ha dal canto suo clamorosamente fallito nel preparare il terreno risultando, inoltre, poco preparato e scarsamente incisivo anche nel corso della consultazione parlamentare. Non meno attaccato è il leader dell'opposizione Ed Milliband, reo di aver cambiato orientamento all'ultimo istante allineandosi in base a dove spirava il vento. Al capo laburista in patria non viene perdonato nemmeno di aver mascherato dietro al paravento delle Nazioni Unite la propria indecisione circa il da farsi, chiedendo di concedere il tempo necessario agli ispettori al fine di guadagnarne lui stesso per intercettare meglio le tendenze dell'opinione pubblica.
Infine sotto il fuoco incrociato dei media - a prescindere dallo schieramento di appartenenza - sono caduti i parlamentari della maggioranza che hanno dato il loro voto all'opposizione, accusati di populismo spicciolo e di basso livello.
Ma una disfatta di simili proporzioni richiede una concatenazione di cause che vanno ben al di là degli errori e delle mancanze individuali.
In primo luogo, la sottovalutata percezione del sentimento popolare. Recenti sondaggi condotti dalla BBC e da altri istituti di ricerca prima dell'attacco chimico attribuito ad Assad hanno rivelato che appena un quarto dei cittadini britannici è a favore di un intervento militare in Siria. L'episodio del 21 agosto, politicamente risonante, ha di poco spostato l'ago della bilancia mantenendo il rapporto tra interventisti e contrari di 2 a 1.
Sebbene il tipo di azione proposta da Cameron fosse un intervento mirato e limitato volto a punire e non a rovesciare il regime di Assad, per dirla con le parole di un ex Ministro degli Esteri laburista "è molto facile iniziare un intervento militare, ma molto difficile tirarsene fuori ". Molti, nel Regno Unito, sospettano che questo sia il vero disegno architettato dal Premier. E di questo sono molto ben consapevoli i vertici militari inglesi, riluttanti ad intraprendere un'operazione che rischia di andare ben oltre le prospettive iniziali in un'epoca in cui anche le Forze Armate di Sua Maestà sono bersagliate da tagli e riduzioni di bilancio senza precedenti.
Non da ultimi, analisti e diplomatici sono apertamente scettici circa il sostegno alle forze ribelli in Siria in quanto annoverano tra le loro fila gruppi e cellule jihadiste apertamente schierate al fianco al-Qaeda. In un simile contesto è infatti molto concreto il rischio che indebolire le forze regolari del regime senza avere una valida alternativa innescherebbe un effetto domino, col solo risultato finale di consegnare in mani anche peggiori le armi chimiche (e non) in possesso di Assad.
Al di là di tutto, ciò che però aleggia nei corridoi di Westminster è lo spettro della guerra in Iraq. I laburisti, afflitti dal senso di colpa di aver seguito con Blair lo sfacelo americano nel 2003, sono adesso particolarmente avversi a qualsiasi forma di intervento. Anche nell'opinione pubblica parlare di armi di distruzione di massa, armi chimiche e rapporti di intelligence rimanda palpabilmente ad un inevitabile parallelo con quell'impresa a cui gli inglesi sono diventati negli anni allergici. Ed a poco vale la considerazione che l'invasione dell'Iraq e l'intervento in Siria siano oggettivamente su due piani totalmente diversi.
Nonostante il Financial Times si interroghi (giustamente) chiedendosi se quanto accaduto sia stato un esito voluto e pertanto altamente significativo o piuttosto l'accidentale risultato di una irripetibile serie di errori di valutazione, le implicazioni del voto del Parlamento inglese vanno ben oltre la sconfitta di un uomo e del suo partito, per quanto umiliante e spettacolare.
Sul piano internazionale, tanto il Premier quanto il Regno Unito escono decisamente ammaccati.
Il primo, dopo aver a lungo cercato di tessere la trama di una coalizione al fianco della quale intervenire sulla falsariga di quanto successo in Libia (bussando in particolare alla porta della Casa Bianca), nel momento in cui si è presentata l'occasione di serrare le fila ha finito per rendersi conto di non essere riuscito nemmeno a tenere in riga i suoi uomini. Perdendo così tutta la credibilità necessaria al leader di un Paese così importante.
Quest'ultimo, d'altro canto, vede drasticamente ridimensionata la sua capacità di influire nello scacchiere mondiale. Costantemente impegnato al fianco degli Stati Uniti, il Regno Unito ha di fatto manifestato la volontà di abdicare il suo ruolo di potenza nucleare di peso, scegliendo in tutta libertà di relegarsi al rango di media potenza concentrata sui propri interessi più su scala regionale che non globale. In realtà, il crescente enti-europeismo ed il paventato referendum circa la permanenza o meno nell'UE sono sintomi di una sorta di desiderio di distacco dal resto del mondo verso cui la classe politica inglese sta conducendo il Paese. E sebbene il rapporto tra Europa e Regno Unito sia sempre stato turbolento, anche la special relationship tra UK ed USA assume con il passo indietro sulla questione Siriana una connotazione che i media britannici non esitano a definire "comica" e "inesistente".
Ma serie ripercussioni echeggiano anche ben oltre i confini inglesi.
Due giorni dopo, sabato 31 agosto, in una conferenza stampa frettolosa il Presidente americano Barack Obama ha inaspettatamente annunciato di voler richiedere l'autorizzazione del Congresso per l'intervento militare in Siria. Sebbene l'esperienza di Cameron sembri un monito per fare esattamente il contrario, nella realpolitik di Washington la mancata condivisione dell'impresa con il partner al di là dell'Atlantico priva Obama di un sostegno fondamentale. Non sul piano operativo, sul quale come sempre gli Americani avrebbero fatto comunque la parte del leone a fronte di un limitato impegno di forze britanniche, ma sul ben più rilevante piano politico. La mancata adesione della Gran Bretagna mina così alla base la legittimità di un intervento apparentemente scontato ed imminente, forzando la mano del Presidente americano che si trova costretto a condividere volente o nolente il potere di decidere se agire (o meno) con tutte le forze politiche. Analogamente, a Parigi il Presidente François Hollande dopo aver scaldato i motori della macchina bellica si trova in una indesiderabile situazione di stallo, costretto ad attendere il voto del Congresso USA e ad ammettere attraverso i suoi Ministri che un intervento unilaterale francese non è concepibile. Riempiendo le ore di questi giorni con dichiarazioni e pericolosi passaggi parlamentari che rischiano di portare l'opinione pubblica a riconsiderare l'opportunità del coinvolgimento francese.
Infine, non meno importante, l'attesa innescata proprio dal dietrofront inglese inevitabilmente consente a Bashar al-Assad di predisporre una efficace difesa e fornisce ai suoi più strenui difensori, come la Russia di Putin, l'assist per sostenere una volta di più la contrarietà ad un intervento dettato solo "dall'arroganza americana".
Il Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, il giorno successivo al voto ha dichiarato alla BBC che " adesso seguirà un periodo di ricerca di identità nazionale e del nostro posto nel mondo. La Gran Bretagna [...] deve chiedersi quale sia il suo ruolo nel mondo. Abbiamo un trascorso diplomatico e militare il quale suggerisce che vogliamo dire la nostra nelle decisioni globali. Spero che questo non diventi un momento in cui giriamo le spalle ai problemi del mondo. "
A ben vedere, se il voto inglese sia stato un incidente politico o una chiara scelta poco cambia nella questione siriana. Le carte e le pedine già molto confuse del complesso Risiko mediorientale sono state ulteriormente sparigliate da un comportamento che pochi commentatori esitano dal definire tanto irresponsabile e pericoloso quanto inatteso, da parte di un Paese che ultimamente sembra sempre più diretto verso una versione rivisitata di quello " splendido isolamento " tipico della politica estera inglese nella seconda metà del XIX secolo.
* Matteo Guillot è Ufficiale della Marina Militare e Dottore in Scienze Marittime e Navali (Università di Pisa) Segui @MatteoGuillot